sabato 28 luglio 2012

Cenni sulla linguistica per Anna Maria ...

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Cenni sulla Linguistica
per Anna Maria ...

di
Gennaro Di Iacovo


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... il presepe è stato attuato da Anna Maria, mia Moglie, nella Scuola Media Ungaretti di Grosseto ...


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alla prof
... Anna Maria ... Maddalena Luigina di Jacovo

grande insegnante di Sostegno alla
Scuola Giuseppe Ungaretti
di Grosseto ...

e ... ai miei amati alunni.

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« Perché dunque incolparmi adesso, dell'avervi messo a parte delle mie ansietà, se mi ci spingesti e scongiurasti Tu stessa? Forseché, nel disperato e mortale sbaraglio in cui mi dibatto, sarebbe in tono, che voi intanto ve la godeste? O vorreste forse, adesso, esser soltanto campagne di gioie, e non anche, più, di dolore? rallegrarvi con gli allegri, sì, ma piangere coi piangenti, no? Tra i veri e i falsi amici non c'è maggior divario che dell' associartisi i falsi, nella fortuna, ma, i veri, nella sventura ». (Abelardo ed Eloisa, Lettera V - Alla Sposa di Cristo il suo servo - A.F. Formiggini Editore, Roma 1927, pagg. 113 segg.).
Secondo Ferdinand de Sausurre « la materia della linguistica è costituita anzi¬tutto dalla totalità delle manifestazioni del linguaggio umano, si tratti di popoli selvaggi o di nazioni civili, di epoche arcaiche o classiche o di decadenza, tenendo conto per ciascun periodo non solo del linguaggio corretto e della "buona lingua", ma delle espressioni d'ogni forma. Non è tutto: poiché il linguaggio sfugge piut¬tosto spesso all'osservazione, il linguista dovrà tenere conto dei testi scritti, i quali soli potranno fargli conoscere gli idiomi del passato o quelli -lontani.
Il compito della linguistica sarà a) fare la descrizione e la storia di tutte le lingue che potrà raggiungere, ciò che comporta fare la storia delle famiglie di lingue e ricostruire, nella misura del possibile, le lingue madri di ciascuna famiglia; b) cer¬care le forze che in modo permanente e universale sono in gioco in tutte le lingue, ed estrarre le leggi generali cui possono ricondursi tutti i particolari fenomeni della storia; e) delimitare e definire se stessa » (F. De Sausurre, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1979, pag. 15).
Osserva il Mounin {Guida alla linguistica, U.E. 626, Feltrinelli ed., Milano 1975, pagg. 19 segg.) che la « linguistica », intesa come lo studio scientifico del linguaggio umano, è « un insieme di conoscenze molto antico » e, nello stesso tempo, « una scienza assai recente », perché ha in realtà una lunga tradizio¬ne scientiflco-culturale alle spalle, anche se solo recentemente è stata clamorosa¬mente portata all'attenzione d'un vasto pubblico, grazie a recenti studi sociologici e psicologici sui sistemi linguistico espressivi.
Prima gli Indiani, poi i Greci ed .infine gli Arabi hanno posto le basi per un'ana¬lisi fonetica di notevole valore, anche se troppo trascurata per duemila anni.
Certamente, possiamo prendere come motivazione di base della nascita del linguaggio l'esigenza di comunicare impressioni ed informazioni nata dall'incontro di esseri dotati di sensibilità e, se vogliamo, d'intelligenza. Molto tardi si è svilup¬pata la scrittura. Per giungere a questa si è dovuto genialmente intuire che è pos¬sibile connettere ad altro segno-simbolo grafico-fisico un suono, ed infine un si¬gnificato convenzionale. Si è giunti per gradi a quei segni che ora chiamiamo « let¬tere », e che hanno la funzione di materializzare visibilmente dei suoni (fonemi).
I primi linguisti senza dubbio sono stati « gli uomini che hanno inventato e perfezionato la scrittura » (Meillet, in Mounin, op. cit.). Durante il Medio Evo, ac¬canto ad uno studio convenzionale e grammaticale, spiccano alcune intuizioni ori¬ginali e quasi anticipatrici di teorie ancora oggi attuali, come quelle di Dante, che esamineremo più oltre.
La riforma dell'ortografia, operata in tutta Europa e resa operante con l'inven¬zione della stampa, stimolerà lo studio della fonetica fino al secolo XVIII. Del XIV secolo sono le prime grammatiche delle lingue volgari. Guido Cavalcanti scrisse « una grammatica e un'arte del dire » sul volgare fiorentino (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Voi. I, pag. 56, Einaudi, 1958). Dal XVI secolo inizia lo stu¬dio delle lingue amerinde e nascono i primi dizionarì poliglotti. Si tentano le prime classificazioni linguistiche (Scaligero). Nel XVII e XVIII secolo la ricerca si esten¬de in ogni direzione: la fonetica progredisce con gli studi anatomici ed appas¬siona gli inventori delle stenografie e delle lingue artificiali, e gli educatori dei sordomuti.
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Tuttavia resta insolubile il grosso problema dell'origine del linguaggio, malgrado le ipotesi proposte, tutte non sufficientemente attendibili o non verificabili, come quella dell'ebraico lingua madre. La scoperta del sanscrito, tra il 1786 e il 1816, segna una grande svolta in questo campo, Si dimostra, con una evidenza indiscu¬tibile, la parentela tra il latino, il greco, il sanscrito, le lingue .germaniche, slave e celtiche. Nasce, con i tentativi operati da Franz Bopp per ricostruire l'indoeuro¬peo nei suoi tratti essenziali, la grammatica comparata. Si prende spunto, para¬gonando fra loro i diversi linguaggi, dai metodi e dai principi delle scienze natu¬rali. Le lingue vengono assimilate ad organismi viventi: allo studio del linguaggio viene applicato, per quasi mezzo secolo, il metodo biologico.
Secondo i grammatici « naturalisti », come lo Schleicher, che era anche bota¬nico-naturalista, le lingue nascono, crescono e muoiono come qualsiasi organismo vivente. E la loro vecchiaia inizia dal momento in cui si codificano nella scrittura.
Dagli studi linguistici comparativi, si sviluppa la linguistica storica, che nasce dall'esigenza di paragonare fra loro fenomeni linguistici verificatisi attraverso stadi progressivi d'una stessa lingua. Così la grammatica comparata da origine al¬lo studio della incessante evoluzione delle lingue. Questa trasformazione è rea¬lizzata tra il 1876 ed il 1886 dalla scuola dei neogrammatici, a cui si deve la si¬stemazione rigorosa del fonetismo arioeuropeo.
La fonetica detiene in questa fase una importanza predominante: riesce a spie¬gare la quasi totalità dei mutamenti linguistici.
Ci si rivolge anche alla nuova scienza: la psicologia, per spiegare la dinamica di alcuni fenomeni generali.
La lingua, studiata storicamente, non è più considerata un'entità suscettibile d'un'analisi biologica, ma piuttosto un'istituzione umana. La linguistica diviene, perciò, una scienza storica, e non appartiene più alla sfera delle scienze naturali.
Una nuova impostazione al problema linguistico sarà data da Sausurre (1857-1913), che interpreterà il linguaggio come una istituzione sociale. Come già si è accennato, compito fondamentale della linguistica è, per il Sausurre, quello di descrivere il maggior numero possibile di lingue storico-naturali e famiglie di lin¬gue sia nella loro funzionalità in un dato momento, sia nel loro divenire attraverso il tempo (studio sincronico o diacronico - « langue » o « parole »), sia da un punto di vista interno, sia da uno psicosociologico, culturale, storico e, in generale, « esterno ».
La teoria del linguista svizzero, in pratica, rovesciò le impostazioni tradizionali della linguistica. Egli stabilisce che la prima tappa d'una scienza del linguaggio dev'essere lo studio del suo funzionamento, « hic et nunc », e non quello della sua evoluzione. La linguistica storica deve esser messa al secondo posto, da un punto di vista metodologico, rispetto ad una più importante linguistica descrittiva. È que¬sta la nota opposizione tra linguistica sincronica e linguistica diacronica.
Lo sforzo di comprendere il funzionamento puro del linguaggio come istituzio¬ne sociale, qui e adesso, conduce il Sausurre a mettere l'accento sulla nozione di sistema. Questo, per lui, è quasi sinonimo di codice. Così « segno », per lui, non è più sinonimo di parola, termine troppo generico, e la nozione di « catena par¬lata » diviene prioritaria rispetto a quella di « frase ». Il termine che Sausurre usa in questo campo è quello di « unità ». Egli vuole individuare le unità reali che compongono la catena parlata. Gli strumenti che propone per studiare le unità di codice che costituiscono i messaggi, sono analisi strutturali. Per questo, con lui, ha inizio il cosiddetto « strutturalismo ». '
La lingua, per il fondatore della moderna linguistica strutturale, « è il patri¬monio collettivo delle forme foniche "significanti", univocamente combinate con i relativi "significati". Questo'patrimonio di segni è organizzato in "sistema", in quanto ciascuno di essi deve la sua esistenza al fatto di entrare in certi rap¬porti con gli altri.
La "funzionalità" del sistema — ciò che lo rende uno strumento atto a funzio¬nare nei singoli atti di "parola" — è costituita appunto dalle opposizioni e corre¬lazioni intercorrenti tra i singoli elementi, i quali risultano individuati dai loro rap¬porti differenziali nei confronti degli elementi similari, piuttosto che dalle loro caratteristiche positive » (R. D'Avino, Introduzione a un corso di Storia Comparata …

delle lingue classiche, Kappa Ed., Roma 1967, pagg. 13 segg.). Quindi, per com¬prendere veramente un termine, non si può isolarlo dal sistema di cui fa parte
In tal modo il linguista svizzero anticipa i risultati e le scoperte dovute agli studi di antropologia culturale, che vedono la lingua non come legata ad una struttura oggettiva di cose, ma come creatrice di tali strutture, in funzione dei bi¬sogni della società che la pone e la mantiene in essere.
La lingua ha infatti la capacità di discriminare l'esperienza in significati e di organizzare le fonìe o le loro rappresentazioni grafiche in significanti.
Sausurre distingue, all'interno del fenomeno linguistico, un aspetto « oggettivo » costante, la « langue », ed un aspetto « soggettivo », individuabile, espressivo, la « parole ».
La « parole » è l'uso che ciascun parlante fa del patrimonio linguistico espres¬sivo comune (« langue »).
L'opposizione fra « langue » e « parole » si può interpretare come quella fra sistema astratto e sue singole manifestazioni materiali. Quella fra paradigmatica e sintagmatica si può interpretare in termini di codice e messaggio; ad essa molti fanno corrispóndere una distinzione terminologica fra struttura (sintagmatica) e sistema (paradigmatica). (G.C. Lepschy, La linguistica strutturale, P.B. Einaudi, Torino 1966, pag. 31).
I principali agenti del mutamento linguistico vengono individuati nei fenomeni dell'alternanza, dell' analogia e dell'agglutinazione.
Dopo Sausurre, lo strutturalismo ha assunto varie tendenze:
Strutturalismo ontologico (Chomsky): concepisce, antistoricamente e naturali¬sticamente, le strutture sociolinguistichre come prodotto delle doti biologiche
contenute nell'uomo, nella sua natura, e quindi le ritiene « innate ».
Strutturalismo. storicizzante: riconosce nelle strutture un prodotto storicamente e tem¬poralmente circoscritto dell'agire umano. Lo strutturalismo praghese (Jakobson e Trubeckoj) è stato ontologico e storicizzante.
Strutturalismo metodologico: concepisce le strutture solo come sistemi utili alla pre¬
sentazione ed alla catalogaziene dei fenomeni.

Strutturalismo. epistemologico: nel riconoscimento del carattere strutturato d'un campo d'esperienza vede una necessità non derogabile della conoscenza umana.

Lo strutturalismo americano è stato soprattutto uno strutturalismo metodolo¬gico. Bloomfield, Harris, Hockett ed Hall ne sono i maggiori esponenti.

Poiché la lingua è un organismo in evoluzione, ci si offre la possibilità di un suo studio diacronico che ne colga l'evolversi temporale.

Sausurre privilegia però, come si è già detto, un secondo tipo di analisi del fenomeno linguistico, basato sullo studio della lingua in un determinato momento storico, così da descriverne il meccanismo ed i rapporti esistenti fra gli elementi che ne costituiscono il sistema. Così, pur ponendo in evidenza l'arbitrarietà del linguaggio, afferma che tale caratteristica è limitata e disciplinata daìla organicità del sistema.

Tutto il sistema della lingua poggia sul principio irrazionale dell'arbitrarietà del segno, per cui il significato viene unito al significante non per una precisa legge naturale, ma in base a criteri « arbitrari » scelti dal parlante.

Questo principio, applicato senza restrizione, porterebbe alla massima con¬fusione.

Lo spirito riesce ad introdurre un principio d'ordine e di regolarità in certe parti della massa dei segni, ed è in ciò il ruolo del relativamente motivato. (F. De Sausurre, Corso di Linguistica Generale, Laterza, Bari 1972, pag. 159).
Solo una parte dei segni è assolutamente arbitraria. Presso altri interviene, in¬vece, una serie di rapporti che ne limitano l'arbitrarietà, lasciando il posto ad una motivazione, che resta, comunque, pur sempre parziale.



Questi rapporti che determinano il significato arbitrario dei segni sono detti paradigmatici (o « associativi »), in quanto definiscono o precisano il significato all'interno di una medesima serie (insegnare, insegnamentp, indottrinamento etc.). Sono rapporti in absentia.

Altri rapporti, però, contribuiscono a definire il significato di un segno, e sono i rapporti sintagmatici. Vale a dire quelli che intercorrono fra una parola e quelle che seguono o precedono nella frase.

Il valore della parola dipende, perciò, anche da quello delle parole che la cir¬condano nella catena parlata. Si tratta, quindi, di rapporti in praesentia.
Lo studio sistematico di ogni unità minima, di tutte le sue possibili associa¬zioni oppositive (paradigmatiche) o dei vari rapporti sintagmatici, coincide con una considerazione « sincronica » della lingua.
Questo si traduce in una « linguistica statica » che descrive un particolare stato della lingua. Questa per Sausurre è la « grammatica ».

Tale concetto supera la grammatica normativa tradizionale, basata su rigorose classificazioni delle parole (le « parti » del discorso). Si arriva ad una visione glo¬bale, sistematica e funzionale del fatto linguistico. La « morfologia » si fonde con la « sintassi » e con lo studio lessicologico. Anziché partire dagli elementi lingui¬stici, si parte dal sistema, avendo come fine la scoperta di come funzioni e si realizzi nei singoli atti del parlante. Dopo le feconde e geniali intuizioni di Sau¬surre, — scrive G.C. Lepschy (La linguistica strutturale, Einaudi 1966, pagg. 37-39) — le tendenze strutturalistiche si possono caratterizzare sommariamente co¬me segue, in base alle loro linee direttive teoriche.

La Scuola di Praga, e più recentemente A. Martinet, per il loro insistere sui valori funzionali della struttura linguistica e dei veri elementi di cui la struttu¬ra si compone.

La Scuola di Copenaghen, e in particolare la glossematica di L. Hjemslev, per il suo insistere sul carattere astratto del sistema linguistico, in base al quale van¬no interpretate le singole manifestazioni materiali.
La linguistica americana, in particolare postbloomfieldiana per il suo carattere tassonomico, per il suo basarsi cioè su processi di segmentazione (del continuum, dell'enunciato in elementi minori di cui esso è composto) e di classificazione di tali elementi in base alle loro proprietà distribuzionali (in base cioè alle possibilità che tali elementi hanno di combinarsi fra loro, formando unità di ordine superiore sempre più complesse).






Le teorie generative, in particolare di Chomsky, elaborate a partire dalle diffi¬coltà contro cui si scontrava l'analisi linguistica tassonomica, introducono nel modello linguistico da esse elaborato, delle regole che consentono di generare (tutte e solo) le proposizioni ammesse in una certa lingua; si introducono in parti¬colare delle regole di trasformazione che consentono di generare intere categorie di proposizioni a partire da altre categorie di proposizioni basilari (la cui struttura viene stabilita attraverso procedimenti tassonomici).

La grammatica generativa trasformazionale è composta da un blocco o com¬ponente centrale sintattico (un calcolo, come si direbbe con termini della logica moderna); da un lato questo è soggetto a un'interpretazione semantica (il compo¬nente semantico è quello che attualmente richiede maggior elaborazione); dall'al¬tro, le « stringhe » finali che esso produce vengono, attraverso le regole del com-ponente fonologico, materializzate nella catena parlata, nei messaggi fonetici che noi percepiamo. Una posizione centrale hanno le teorie di Jakobson e più recente¬mente di Halle, secondo cui nel componente fonologico ci si serve di un inventario di dodici «tratti distintivi binari » che costituiscono veri universali linguistici, co¬muni a qualunque lingua.







Noam Avram Chomsky porta i dati e le intuizioni di Sausurre a livelli decisa¬mente rivoluzionari. La linguistica, con lui, abbandona ogni finalità semplicemente classificatoria (linguistica tassonomica) per interessarsi soprattutto di ricostruire modelli ipotetici espliciti delle lingue, destinati a chiarire i dati linguistici osser¬vabili. Con lui ci si avvia verso una vera concezione teorica della linguistica, già abbozzata dagli strutturalisti.



Il linguista americano, che ricerca le forme della realtà profonda del linguaggio, reinterpreta la distinzione sausurriana di « langue » e « parole » nei termini di « competenza » (la conoscenza implicita, e non conscia, che il parlante ha della propria lingua) e di « esecuzione » (le frasi che il parlante produce realmente, nelle quali si manifesta la sua competenza), e si propone di definire la compe¬tenza linguistica, cioè, come egli scrive. « // sistema astratto di regole che sotto¬sta al comportamento verbale di ciascun parlante ». Chi parla una lingua può pro¬durre, e comprendere, un numero pressoché illimitato di frasi, la maggior parte delle quali non sono mai apparse prima, e, molto verosimilmente, non riappari¬ranno più.

Ogni parlante « reinventa » la lingua. Di questo aspetto creativo del linguaggio umano, fondamentale per Chomsky, non darebbe certo ragione una indagine che si rivolgesse all'esecuzione — cioè a un corpo di.testi necessariamente finito —, per estrarne, induttivamente, il sistema di regole che lo governano.

Del resto, come ricorda l'esperienza della scienza contemporanea, la raccolta, l'osservazione e la classificazione dei dati non ci garantiscono alcuna generalizza¬zione scientificamente valida, che possa cioè prevedere i nuovi fatti, oltre a fornire una descrizione plausibile di quelli già noti. La formulazione di una teoria scientifica comporta sempre un rischio. Essa viene costruita servendosi di un numero limi¬tato di esperienze, e quindi verificata nei fatti, che hanno la funzione di farla respin¬gere o accettare (« i dati dell'osservazione sono interessanti nella misura in cui hanno una incidenza sulla scelta fra due teorie rivali », scrive Chomsky). A questi principi s'attiene il linguista, allorché cerca di specificare le regole che governano la competenza lingusitica, elaborando alcuni modelli ipotetici (grammatiche), e confrontandoli quindi con i fatti linguistici reali, che decideranno quale sia il più adeguato.

A differenza degli strutturalisti europei, Chomsky non parte dalle unità minime della lingua, ma dalla frase. Il compito di uria grammatica risiede nella capacità di enumerare tutte le frasi incontestabilmente grammaticali della lingua data, esclu¬dendo, per converso, quelle pure incontestabilmente non grammaticali (V. Boarini -P. Benfiglieli, Avanguardia e restaurazione, Zanichelli, Bologna 1976, pagg. 666 segg.).

In questo modo il fatto centrale nello studio del fenomeno linguistico è la in¬nata capacità che ha ogni parlante di produrre e di comprendere un numero gran¬dissimo di frasi, anche se non le ha mai prima d'allora ascoltate né pronunciate. Questa capacità produttiva e decodificatoria nell'ambito linguistico, la chiama dunque « competenza (linguìstica) » (= conoscenza implicita che ogni parlante ha della propria lingua). Tale sistema mentale di regole e norme linguisticamente ope-ranti è codificato nella « grammatica ».
Chomsky tende a ridurre i modelli linguistici ad un insieme di regole meccanica¬mente applicabili sotto la forma di un algoritmo (procedimento sistematico che consente di pervenire al risultato desiderato con una bene determinata succes¬sione di operazioni eseguite secondo regole precise).

Abbandonando la pretesa di emettere giudizi inconfutabili sulle reali regole usate dal parlante nella produzione linguistica, la grammatica generativa cerca in sostanza di adeguarsi, cercando di definirne i meccanismi, alla realtà sottostante il comportamento effettivo dei parlanti. Così diventa una branca della psicologia.

Si cerca pertanto di ricostruire ipoteticamente e scientificamente la struttura di un meccanismo che ogni bambino ha riprodotto appropriandosi di un linguaggio in un determinato ambiente.
Questo meccanismo deve essere molto sistematico e ben coordinato, operante secondo schemi omogenei, se è vero che bambini di 2-3 anni sono già in grado di appropriarsene. Insomma, una grammatica è un meccanismo capace, pur essen¬do finito, di generare un insieme infinito di frasi grammaticali.
Il modello linguistico di base di cui Chomsky si serve per visualizzare i rapporti esistenti fra i costituenti (parole) della frase, è il « phrase marker » (indicatore della frase). Questo è anche definito « indicatore sintagmatico », in quanto scom¬pone la-frase in gruppi sintagmatici,- ossia in gruppi di parole che hanno un con¬tenuto unitario, e all'interno di ogni sintagma specifica le categorie (nome, articol et cetera) e le funzioni (soggetto, predicato etc.).

Il costituente più elevato è la frase.

Ad esempio:

l’uomo colpisce la palla

Una prima divisione comporta una prima distinzione fra due sintagmi. Il sintagma o gruppo nominale (GN] « l'uomo », forma¬to da articolo (o determinante) e nome, ed il sintagma o gruppo verbale « colpisce la palla ». Quest'ultimo può essere diviso ancora in altri costituenti: il verbo, « col¬pisce », ed il secondo gruppo (o « sintagma ») nominale (GN) « la palla ».
I due GN possono essere scomposti neMoro costituenti ultimi (parole, « mor¬femi » o, per Martinet, monemi, ossia unità linguistiche minime dotate di signi¬ficato):
l'uomo = GN (o SN) = Art (o Determ.) + N (sogg. = GN 1) la palla = GN - Art + N (compi, ogg. = GN 2)
La « formula » della frase semplice è, quindi, la seguente: Fs = GN + GV.
Mediante l'applicazione d'una serie di « regole di riscrittura » si giunge ai costi¬tuenti terminali:
GN + GV Art + N + GV Art + N + Verbo + GN + N + Verbo + GN + uomo + Verbo + GN + uomo + colpisce + Art + N + uomo + colpisce + la + N + uomo + colpisce + la + palla
(E. Cavallini Bernacchi, l'insegnamento della lingua, II Punto-emme edizioni, Mi¬lano 1975, pag. 84 e N. Chomsky, Le strutture della sintassi, U. Laterza, Bari 1974, pag. 36).
(Nota: le « regole di riscrittura » hanno la forma generale X—>Y, da interpre¬tarsi come « si riscriva X come Y ». Per es. F—» SN + SV (Frase = Sintagma (o Gruppo) Nominale + Sintagma Verbale).
Questo sistema permette — cosa che si nota facilmente — di visualizzare an¬che le differenze di struttura che possono generare ambiguità in frasi apparente¬mente simili.
Esaminiamo la frase seguente:


1. una vecchia
porta la sbarra


2. una vecchia porta
la sbarra

L'ambiguità è generata dal modo in cui si intende il monema « porta »: Nome
oppure Verbo. :
Nel primo caso la stringa categoriale sarà A + N + V + A + N.
Nel secondo sarà: A + Agg. + N + Pron. + V.

Ma esistono frasi che restano ambigue anche dopo un'analisi sintagmatica strut-turale di questo tipo.

Per esempio, la frase « il maestro spaventa il bambino » è ambigua, perché può essere assunta sia nel senso che il maestro compie qualche azione che spaventa il bambino, sia nel senso che il bambino si spaventa alla sem¬plice vista del maestro.

Nei due casi è diversa la relazione tra « il maestro » e « spaventa ». La gramma¬tica sintagmatica non è in grado di distinguere strutturalmente le due interpreta-zioni.






La grammatica sintagmatica non sa render conto delle relazioni intuitive fra una frase attiva e la corrispondente negativa, interrogativa o passiva.




IL TRASFORMAZIONALISMO

Per questo motivo Chomsky introduce le regole « trasformazionali ». La sua grammatica è detta perciò « generativo-trasformazionale ». In questa grammatica, ad una prima analisi « sintagmatica », che visualizza le strutture profonde delle frasi, segue una seconda analisi che chiarifica le regole di trasformazione, determinando la struttura superficiale delle frasi, che coincide con la forma finale degli enunciati.

Per esempio, alla struttura profonda « io ordino a te tu vieni » operano le trasformazioni che la mutano in:
« ti ordino di venire » .

La grammatica sintagmatica analizza solo la frase-base.

Costruito il primo indicatore sintagmatico, si può procedere all'applicazione di ogni possibile trasformazione:
ti ordino di venire?
Ti ordino di venire!
Vieni! … te lo ordino
Da parte mia ti si ordina di venire
Io … ordinarti di venire !…
(interrogativa, esclamativa ed imperativa; negativa, passiva ed enfatica).
La frase-base è « dichiarativa ».

Le posizioni della grammatica generativo trasformazionale, come osserva la Bernacchi, sono, implicamente, un'accusa continua ai fini ed ai metodi delle gram¬matiche tradizionali. Mentre quest'ultime (ch£ si identificano in genere con quelle scolastiche) si preoccupano di fornire al parlante un insieme di regole che rendano corretto ed ortodosso il suo uso linguistico, le grammatiche generative assumono che le regolarità della lingua siano già implicitamente possedute dal parlante, alla cui competenza, anzi, fanno continuo ricorso per valutare il loro grado di ade¬guatezza.
Il fine di tali grammatiche, quindi, non è di fornire le regole della lingua, ma di scoprirle deducendole dagli usi linguistici concreti. Esse si propongono non di « in¬segnare la lingua », bensì di indagare sui processi mentali che regolano l'acquisizio¬ne e l'uso delle lingue, cioè di formulare un sistema di norme che permetta la for¬mazione di tutte le possibili frasi grammaticali ed escluda invece quelle non grammaticali.
Non hanno dunque intenti didattici, ma scientifici. Loro scopo, come si è accen¬nato, è la costruzione di una teoria del linguaggio.
Per questo, tali grammatiche rifiutano ogni atteggiamento di infallibilità e di incontestabilità, prerogativa delle grammatiche tradizionali. In questo senso, pur senza assumere fini didattici, le grammatiche generative contengono fondamentali fermenti didattici. Le « regole » grammaticali si rivelano inutili in un doppio senso: da un lato perché l'insegnante dovrebbe abituarsi a non spiegare ai propri alunni i fenomeni della lingua, ma a cercarne invece insieme a loro diverse possibili spie¬gazioni; dall'altro perché ciascuno impara a parlare correttamente da" sé, purché venga esposto all'emissione di enunciati corretti, e purché non gli sì crei la paura di sbagliare.
In questo senso uno dei fondamentali compiti dell'insegnante riguardo all'ap¬prendimento linguistico resta quello di riprodurre e di incrementare la situazione naturale di conversazione, di scambio verbale spontaneo attraverso cui ogni bambino, senza che gli vengano insegnate regole, impara a parlare.
Sì tratterà poi, in diversi gradi a seconda del livello scolastico o delle fasce di
livello all'interno di una classe medesima, di prendere spunto da questi atti di co¬
municazione per avviare riflessioni sistematiche sulle caratteristiche dell'uso lin¬
guistico, così da rendere ciascuno il più possibile consapevole delle caratteri¬
stiche, della natura e delle possibilità dello strumento linguistico (E.C. Bernacchi,
pagg. 90-91).



§


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DANTE PRECURSORE DELLA MODERNA LINGUISTICA

Intuizioni dantesche di chiarissima.attualità sono la considerazione del linguaggio come «forma» e del « segno » come « libero »; il riconoscimento del divenire delle .lingue e della sto¬ricità del fatto linguistico; il rilievo del fattore sociale nel processo evolutivo dei linguaggi; la nozione di « lingua » come comunione linguistica nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; la nozione di lingua comune come ten¬denza cosciente all'unificazione, che si attua attraverso il magistero dell'arte e il prestigio e l'azione del potere politico.
Sarà bene analizzare brevemente solo alcuni di questi punti, mirabilmente illu-strdu ud Antonino Pagliaro (A. Pagliaro, Nuovi Saggi di Critica Semantica, la dot¬trina linguistica dì Dante, Editore G. D'Anna, Messina-Firenze 1963, pagg. 215 segg.).

Il linguaggio è, per Dante, facoltà propria ed esclusiva dell'uomo di esprimere con parole gli intellectus o conceptiones della mente.
La parola è per lui il « segno fonico », come noi l'intendiamo, « rationale et sen¬suale » (De Vulgari Eloquentia, I, III, 2); ha, cioè, una realtà sensibile, in quanto il suono è oggetto di sensazione, ed una realtà spirituale, in quanto il complesso fonico ha un significato che ad esso inerisce non per necessità naturale, ma perche gli uomini ve lo attribuiscono: « nam sensuale quid est, in quantum sonus est; rationale vero, in quantum aliquid significare idetuz ad placitum » (De V.E. I, III, 3) (ed appunto questo segno è quel subietto nobile di cui parlo): infatti è alcun¬ché di sensibile, in quanto è suono; e di razionale, in quanto appar significare alcuna cosa a piacimento) (Dante Alighieri, Tutte le opere, a C.L. Blasucci, ed., Firenze 1965, pag. 205 b).







" Fu necessario, dunque, che il genere umano per comunicare fra sé le proprie idee disponesse di qualche segno sensibile e razionale; che esso, dovendo da ra¬gione ricevere ed a ragione portare, fu necessariamente razionale; e non potendosi d'altra parte riferire da una ragione all'altra se non per mezzo sensibile, fu neces¬sariamente sensibile. Pertanto, se fosse soltanto razionale, non potrebbe passare dall'uno all'altro; se fosse soltanto sensibile, non potrebbe da ragione ricevere ed a ragione portare » (De V.E. I, III, 2).

Sono da rilevare due punti essenziali in questa concezione. Prima di tutto il riconoscimento (cinque secoli prima di Sausurre) dell'arbitrarietà del segno lin¬guistico, e più precisamente della libertà della parola come complesso di segni va¬riamente organizzati. Tale arbitrarietà (« aliqujs significare ad placitum ») è lega¬ta da Dante con la libertà inerente allo spirito [ratio], mentre gli animali che ob¬bediscono all'istinto sono legati nel comunicare a certi atti o manifestazioni emo¬tive (« per proprios actus vel passiones » — per mezzo dei suoi propri atti o pas¬sioni — De V.E,, I, III, 1).
La facoltà di connettere suono e significato è data all'uomo da natura, ma l'at¬tuazione, la modalità di tale connessione è ad arbitrio degli uomini, cioè della li¬bertà che è inerente alla loro « ratio »:

« Opera naturale è ch'uom favella;
ma, così o così, natura lascia
poi fare a voi, secondo che v'abbella » (Paradiso XXVI, 130-132).


A questa comune capacità fonico semantica, corrisponde nei fatti una grande varietà di lingue diverse.
Per spiegare la formazione di comunità linguistiche distinte, Dante ricorre alla tradizione biblica della confusione babelica, interpretandola in forma nuova e ori¬ginale.
Gli uomini che erano intenti alla costruzione della torre, per la necessità del loro lavoro, crearono tante lingue speciali in conformità alle singole attività comuni.
« Solo quelli, infatti, che si accomunavano in una data operazione vennero ad avere una lingua medésima: una, per esempio, tutti gli architetti, una quanti rotolavano i sassi, una quanti li preparavano e così avvenne di tutti gli operai. E quante erano le forme di attività impegnate nella costruzione, in tanti idiomi allora si divide il genere umano » (De V.E. I, VII, 7). Dante individua nel bisogno di comu¬nicazione, inerente al comune lavoro, la creazione di singole lingue speciali.

47 Pur senza staccarsi dalla base culturale tradizionale, costituita dalla Bibbia, egli aggiunge una nota nuova al mito ebraico, anticipando la moderna teoria « sinergastica »'(greco: siunergàzomai = lavoro insieme) dell'origine delle lingue.

Sulle lingue europee, Dante pone quello che chiama « idioma tripharium » come lingua che ha dato origine alle tre lingue romanze a lui note: francese, provenzale ed italiano. Non dice, però, esplicitamente cosa sarà stato questo linguaggio che è alla base delle tre lingue neolatine. Non lo identifica, comunque, con il latino della tradizione colta.

Lo sviluppo del suo argomentare porta necessariamente alla nozione di una lingua parlata, di cui il latino letterario, il latino dell'uso colto medioevale, sarebbe stato la forma grammaticale.
E nello stesso modo in cui ha intuito l'unità sostanziale dell'idioma tripharium, di cui la « lingua del sì », la « lingua d'oil » e la « lingua d'oc » sono manifestazioni diverse, Dante intuisce anche la fondamentale unità della « lingua del sì » alla base delle varietà dialettali. In tal modo, quindi, giunge alla determinazione della comu¬nione linguistica, che è alla base di un dominio dialettalmente differenziato, ossia della « lingua » nel senso « storico » della parola.

« In quanto agiamo come Italiani, abbiamo alcuni segni essenziali e di costumi e di atteggiamenti e di idioma, rispetto ai quali si soppesano e si misurano le azioni italiane. E appunto questi, che sono i segni più perfetti di quelle che sono le azioni proprie degli italiani, non sono specifici di nessuna città d'Italia e in tutte sono comuni; fra essi ora si può discernere quel volgare di cui sopra andavamo in cerca, del quale ogni città vi è sentore e che in nessuna ha sede » (De V.E. I, XVI, 3-4). È da rilevare che Dante pone la lingua sullo stesso piano dei costumi e degli istituti, in cui si determina la fisionomia storica di una comunità.
Noi oggi sappiamo, e Dante lo aveva"intuito, che l'affermarsi di una lingua co¬mune su un dominio dialettalmente differenziato è dovuto a circostanze varie, poli¬tiche e culturali, che danno la prevalenza alla parlata di una regione, di una città o addirittura di un ceto. Così è avvenuto per la Koinè greca, affermatasi per il pre¬stigio politico e culturale di Atene; così è avvenuto per l'italiano, per il francese, per il tedesco.

Ma Dante non ci trovava, come ci troviamo noi, ora, di fronte al fatto compiuto, e con le sue intuizioni anticipava l'avvenire, riuscendo a prevedere lo sviluppo probabile di certe potenzialità linguistiche.
Se l'italianità linguistica ha la sua essenza in alcuni caratteri fondamentali. •• primissima signa », il volgare illustre, cioè la lingua comune, non può aversi se non attraverso lo scoprimento di questi caratteri e l'adeguamento ad essi di ogni atteggiamento del parlante, escludendo il difforme ed il deviato dall'uso corretto della lingua.

Appare chiaro come Dante veda nell'unificazione linguistica un'opera di crea¬zione nazionale e popolare collettiva, ed un'opera di ricerca cosciente e paziente da parte di una minoranza di intellettuali che. avvalendosi dell'Arte, di un gusto gentile e raffinato e dell'appoggio d'un opportuno ambiente politico, dia uniformità ed ampiezza all'uso linguistico, mantenendolo, tuttavia, fedele ai suoi fondamentali contrassegni genetici.
Concludendo, gli elementi nuovi apportati dal trattato dantesco nei confronti della speculazione linguistica antica e anticipatori delle moderne dottrine lingui¬stiche si possono così riassumere: considerazioni del linguaggio come « forma » (ossia costituzione del vocabolo nel suo rapporto necessario fra suono e significato e modo di organizzare i vocaboli nella frase: delimitazione di Piano Paradigmatico e Piano Sintagmatico) e del « segno » come « libero » (arbitrarietà del linguaggio, per Sausurre); riconoscimento del divenire delle lingue e della storicità del fatto -linguistico; rilievo del fattore sociale e politico; nozione di « lingua » come « co¬munione linguistica » nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; nozione di lingua come tendenza cosciente all'unificazione, che si attua attraverso il magistero dell'Arte e il prestigio e l'azione del potere politico.



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venerdì 27 luglio 2012

poesie per Anna e la mamma

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le foglie del nespolo gldj

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Pubblicato da Gennaro di Jacovo

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Gennaro di jacovo Grosseto

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Alek Sander

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le foglie del nespolo

gennaro di jacovo

le foglie del nespolo

forum livii quinta generazione 1984
rosetum argos&ruphus editori 2004


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Al lupo! …



Perché sono uno che troppe volte ha gridato
“al lupo!… al lupo!…”
povera pecora perduta nel mare dei kissà.
Si accendono luci sulla terrazza del Corvo
ma hanno tagliato la mimosa
e il Sole secca e brucia senza sosta


La Grande Casa se ne sta muta
col suo vecchio tetto crollante
aspetta solo
una famiglia perduta

Quante voci ha sentito
il suo vecchio pavimento
è pieno di passi sonori
e le sue mura
grondano ricordi



Mio Padre non ebbe
mattini passati a cercare
pigne da ardere e origano:
passò le notti a scrivere e sognare

Poi vide il Mare e se ne innamorò

Adesso che fischiano i merli
voglio sentirli kantare
mentre ormai tace
il Mare


Amarkord:


Entrammo spauriti e spavaldi nel ristorante romagnolo
entrammo spauriti e spavaldi
nel ristorante romagnolo
e sotto il tovagliolo
ritrovammo ogni ricordo



Aveva il viso bello e la cravatta a stelle
quando ci salutò l’ultima volta.
I phunghi non erano avvelenati
né salato il conto.
Lo conservo ancora



Tu avevi una maskera appesa
dorata meno smarrita
Io ero Sugar Louis
alla tredicesima ripresa
quella vincente:
non avevo dente
che mi facesse male
macinavo parole
dicevo
tutto con grande coerenza
e avevo grandi ali
distese dietro le spalle
rosse e gialle
pronte a volare lontano

avevo
un’aria di lupo satollo
come per quell’Animale di Apollo



nulla
spingeva la mia nave
al di là dell’atollo
delle anguille
cotte a puntino.
“Luigino!…”
(la cosa sapeva di Gozzano!)
“lo prendiamo il dolce?
E il kapphé?
Domani hai degli impegni
bisogna che ti svegli!”


“Lo sono – amika mia –
solo se non dormo”.


Gli altri – attorno –
sganasciavano lieti
la phontana era muta
senza più pensieri. Seccata
asciutta e triste.

Forse un po’ scocciata.
Troppi incendi.
“Però non è normale
- diceva uno al cuoco –
che debba esser senz’acqua
proprio la phontana
di chi ci toglie il fuoco”.

La cena fu stupenda.
Il giorno dopo
- anche se riluttante –
volò Kwel
nostro aliante



Angoscia





sotto le croste secche
di carta
sul muro cadente
nella stanza celeste
come ricordi antichi
crepitano
strisciando piano
gli scorpioni


con grido forte di angoscia
la bambina fugge
se ha visto
o ricordato
uno scorpione
il padre accorre
e cauto
quasi con rimorso
schiaccia la bestia
ancora crepitante

sul pavimento
di pietre quadrate
tra scarpe rotte
e vecchi tappeti
piccoli pezzi neri
di scorpione
ti guardano
muti




Arance (aranga!)




Sfumò cullandosi dietro le ultime stelle
dell’autunno il piccolo furto
di sale
e la luna sfiorando i cipressi
e gli arbusti bruciati
pareva una palla di marmo
celeste

Gli amici partirono
con le loro gialle facce pallide
e le guance piene di prudenza
e mi lasciarono
scrollando le spalle incavate

A Kwal Kuno spedii la foto
della mia tomba

… d’inverno puliamo accendini
fatati
e rispolveriamo
giacche a vento.

Kwal Kaltro
mangia persino arance
per non avere starnuti

Lassù Kwal Kuno
nella nebbia e nella poltiglia
di neve e di fango
le mangia solo
perché sono buone




Caelm stellatum novembre



Così nelle notti d’inverno
S’alza il gigantesco Orione
Verso le Pleiadi
(le oche migrano a Novembre)

tu Betelgeuse
Alpha di Orione
Splendi lucidissima
(l’anatra guida la freccia pennuta)

tu, Antares, tu
che sorridi lontana
(scamperemo ai massacri dell’estate)

tu, soave Deneb, Alpha del Cigno
viaggi oltre la luce
di seicento anni
(non cade più nel barattolo dello zucchero)

più vicine
la lucente Altair
e la fulgida Vega
(ci vediamo alla Madonna del Fuoco)

e tu piccolo Sole
così abbagliante e vicino
adesso lasci vedere
assente australe
le Grandi Sorelle lontane





A Cecilia da-da



Cecilia
per te almeno della festa non sia
più bella la vigilia.
Tre piccole posate di ghiaccio
e tu rispondi con poesie da-da
negli occhi d’argento

Le ire ho scaricato
sopra un fiume calabro
secco d’Estate
per non dirigere altrove
inutili parole



Si torna a parlare d’Apocalisse.
Ma ormai noi siamo
dopo l’Apocalisse

Noi non abbiamo più
dèi né eroi
né le Phate d’un tempo
né Miti

Ci bastano
solo pochi Gesuiti

… …

Ma per Te almeno
Cecilia
della festa più bella non sia
la Vigilia
E’ bello vedere


è bello veder camminare i piedi
nei loro sandali di pelle marrone.

Quanta strada ho fatto
senza mai camminare
e quanto ho camminato
senza mai spostarmi di molto
per trovare gli occhi diritti
della mia spada ricurva

E’ bello vedere camminare i piedi
nelle loro scarpe di tela avana.
Il pomeriggio che viene intorno
alla mia pelle
mi ha detto stasera:
devi amarla lontana
e fuggirla vicina.
E’ già pronta la bisaccia
per la tua partenza:
essa si avvicina.

E’ bello vedere camminare i piedi
coperti di stivali scamosciati.
Perché Tu hai riso
quando il tuo Amore piangeva
poiché tu hai pianto
se lui rideva
alta sarà l’erba
della tua amarezza
è’ bello vedere camminare i piedi
nelle scarpe di gomma per la pioggia,

Il tuo albero lo hai troppo tagliato
e i suoi frutti cominciano a scarseggiare
adesso che Tu hai sete
lontano è il succo del kaktus …
E’ difficile dire, adesso


E’ difficile dire, adesso, ciò che sei stata.
Idea, forse, chimera fragile.
O speranza.
Oppure una risposta mancata
o una domanda sciupata
fra i tanti “non so …
non è il momento …”
caduti sopra il pavimento
dei nostri “come stai?”

Forse eri quel quadro che attende i colori
sopra i Piani di Studio della Scuola
o quel disco che compro ogni mattina
a cui manca la musica che amo.
forse eri la nebbia che rischiara
o l’umida lumaca con la scia
così argentata.
o quella fetta di kokomero
da mangiare l’estate passata.
O quella manciata di anguille
Che non si fermeranno nel mio piatto.

Forse eri quel gatto
Quella stella cadente
Forse quel bambino
Che ero e che non sarò.

E’ difficile dire adesso quello che eri.
Una voglia di scrivere o strappare
Oppure tante parole amare
Rientrate nella bocca della penna.

Una verde custodia Olivetti
Piena di chiacchiere d’amore
Di foto e cartoline.
Una fila di nere mattine e notti insonni

Passate con gli occhi bruciati
A fissare le palpebre.

Eri forse la vita
Che mi è sfuggita.
O la morte insidiosa.
Oppure quella rosa che non so più mandarti.

Eri forse il disprezzo
Che ho di me stesso?
O un dono immeritato?
Eri tu dunque
Quanta tenerezza
Dell’esercito della salvezza?
O Demone? O Strega Cattiva?
Oppure incoscienza giuliva?

Quante cose non eri
Neppure saprei dire o pensare.
Non eri l’onda del mare
Che ristora d’Estate ma nemmeno
Sabbia cocente.
Non eri veleno e nemmeno elisire di vita.
Forse tu eri … Forse …
Ti eri smarrita!
Nel Bosco delle Perplessità?
O in quello delle Certezze?


Adesso
Mi scrivi da tempo
Ma non mi tieni più testa
In questo poco che resta
Dell’ansia che fu
Sugo salato alterno
Del mio Passato Inverno.



Essa verrà dal mare


Stasera un vento freddo mi scompone
i capelli e spruzzi d’acqua salata
mi spingono lontano dalla riva.
Troppo fredda questa sera
per essere una sera d’estate.

Tutte le nostre parole
le porta via questo vento
mentre mi tuffo
nei nuovi libri sereni
e chiari.

Tu non mi aspetti più
ma nemmeno mi cacci via
e ti penso nelle tue Fiabe
con gli orsi e le Fate
e i draghi che sputano fuoko …

Kwi
nella mia kapanna nel bosko
aspetto il tramonto e la phine
con la mia gialla veste.


Essa verrà dal mare coperta di tristezza.
Essa verrà nuotando come un’anguilla.
Essa verrà strisciando come lumaca.

Essa verrà col tuo sorriso obliquo.
E mi parlerà guardando i miei piedi
ed io sarò come un breve ricordo
volando via sul suo dorso.




Fila strokka







Nella sera c’è una stella
(brillerà fino al mattino)
sogna e pensa gatta bella
pensa e sogna un bel mastino

Quando non ci sarà stella
nelle notti lumacose
quelle notti assai lunose
cercheremo mortadella.

Forse insieme e forse no
qualche volta è troppo tardi
anche per noi gattopardi
fermi e quatti nel comò.

Quindi Zorro stai distante
le burrasche van domate
anche se le hai provocate
col tuo deltaplanoaliante.

Superman alla riscossa
coi suoi muscoli d’acciaio
vola in alto forte e gaio
dalla bella Isola Rossa.











Granturco forlivese




Sopra i dolci vigneti oltre il fiume
tra gli alberi neri svettanti
oltre la pianura
i tuo occhi si posero
nella mia sete
e mi guardarono canzoni
volarono alte
con tenui note
e si parlava di Dio
mentre cercavamo un vino raro
irripetibile

Fu buono quel lambrusco
strappato alla coda
d’una Estate agli sgoccioli.


“Non scrivermi …
e mandami quei libri …”

Tu
Pannocchia di granone dorata
a me strega perduta
nel conto dei tuoi chicchi.











Il canto della morte





Non aspetto che la tua assenza germogli
per questo non dare voce
alla tua succosa disperazione

In questo tiepido pomeriggio di Aprile
mi sento come un veliero senza vento
cadute le sue gialle stoffe
stanchi i suoi nerboruti marinai
floscia l’acqua che intorno
intona il canto della balena

Bastò un leggero soffio
un tempo per lanciarmi sopra le onde
e precipitarmi nei gorghi più cupi
e azzurri

Adesso
forse un uragano soltanto
mi ridarebbe la vita

Ma è meglio stare qui
in alto mare con questi bianchi
uccellacci che svolazzano
intorno intonando
un dolce canto di morte tardiva
un dolce canto di volpe argentata










Il Generale

Hanno lasciato solo il Generale a morire nella sua stanza dei ricordi
hanno lasciato solo il Generale a morire nella tenda dei ricordi
hanno lasciato solo il Generale a morire nella sua onda dei ricordi

Il Generale ora ha tutta la sua Rotondità
Il Generale ora sbadiglia disegnando un mandàla!
E non indossa più la sua casacca sbiadita
ed ha fatto la pace d’Africa
perché ora tutti indossano casacche d’Africa italiane.


Hanno lasciato solo il generale a sorridere sopra le sue proiezioni.
Hanno lasciato solo il generale in preda al suo Es ormai pacifico.


Il Generale ora sorride
sorride e si asciuga una lacrima
vorrebbe scriverle
ma non trova più il suo mittente
così prende la sua penna
senza parole e scrive a se stesso:


“Caro vecchio buon Generale
che sai nuotare sopra gli oceani
che sai passare sotto la neve
la tua casa è sotto la sabbia”


Hanno lasciato il Generale solo
solo come un albero dentro un bosco
a morire nella sua tenda remember
ma prima deve trovare la sua ombra




Sta frugando nei suoi cassetti
il Generale mette tutto a soqquadro
e trova vecchi oggetti scordati
ciuffi di capelli e biglietti variegati.



E sorride nella stanza – sorride e piange –
rivede ancora quando partì soldato
e la sua donna venne a trovarlo
con doni e un pacchetto di fumo
ma aveva quasi otto anni di ritardo
e lui era partito per l’Africa
l’Africa
l’Africa
l’Africa
l’Africa



… …


Africa dolce Africa amara
Africa dune dorate e banane
Africa uccidere con le parole
Africa scrivere e fare frittate
Africa sempre
Africa mai
Africa dove ti cercherei
Africa prendimi e fammi volare
in fondo al mare
… … …
in fondo al mare




Il mare morto


Tu ancora curva la mano
sui capelli rossi
scendi
la strada in fondo
al precipizio:
il mare
ti saprà fermare.

Le foto intorno
hanno una carta bianca
avorio
e una cornice dorata

da piccolo
non rubavo marmellata
rubavo la conserva
dei pomodori

Mentre scendi al mare
di fronte a me
con la mano agiti un addio
lontano

Di notte quando il rombo
del tuono squassa i vetri
della finestra che guarda il nespolo
e il lampo abbaglia
improvviso e l’abbuffaglia
delle nubi scende dal cielo e crolla
nella notte e soffoca la luce
io penso a dove
quella via
conduce.




Il mito è finito







Il prophumo del Mito
è phinito
sul dito e sulle caviglie.


Conchiglie
cercavi.
Scrivevi
meraviglie.

Essi sono fra noi.
Li ho visti
cadere con una stella.
Cadere
su stelle di pelle
li vidi.






La gente distratta
cercando una gatta
ha bevuto cicuta
ed ora starnuta
ed è muta.




Il Premio



Tu non c’eri a Ravenna ieri l’altro
alla festa dei poeti
tra arazzi e tappeti danzanti
c’erano in tanti.
C’era una Poetessa sapiente
a cui mancava solo
la Parola
e c’era la pianola
e una vecchia signora
con un coro d’angeli
e c’era Garibaldi
senza poncho e cavallo
ma sulla sua Renaut
era inarrivabile lo stesso
(per un attimo
mi sono sentito Bixio)

C’era un poeta spagnolo
sudamericano
e c’era il Direttore.
C’era anche Phann
col suo lontano Amore
chiuso nella borsetta
e leggeva la Poesia che parla di Te
così bene
che tutti avevamo scordato
- ma forse non lo sapevamo -
che lassù – lontano –
pare a Milano
Eugenio se ne andava
in silenzio.

Piano.






Immagine






Nel cassetto la vidi sorridere muta
Fra le carte aride di Argan
E di Odisseo politropo
Quasi un fantasma grigio e lucente
Piccola speranza
Messaggio d’amore
Enigmatico
Quasi una
Elucubrazione
Di Chomsky
Persa nell’infinito
Di quel piccolo spazio
O futile scherzo
Di due anime
Senza parole
















La donna e la sua ombra

La Donna pianse per buona parte della Notte
quando s’immerse nell’Onda dei Ricordi
con tutto il torpore dell’animo
e corse fuori all’aperto.
Il Sole era tramontato
e la sua Ombra era Konphusa
fra le altre Ombre.
Ma ne sentiva lontano il respiro
e allora la Donna chiamò la sua Ombra:
“Ombra – disse e gridò –
Ombra, allontanati dalla Notte
e cercami
perché non so stare senza Te!”

Ma l’Ombra bisbigliava lontano
perduta sul Promontorio Perduto.

“Ombra! Ti darò ciò che vuoi!
Tramonti e cieli arancioni
con frutti squisiti! ,,, Vieni! …

Ma l’Ombra sussurrava lontano
confusa tra le cose confuse.
Allora la Donna si diede per Vinta
e cedette la sua bisaccia di riservatezza
poiché si sentiva scivolare addosso la vita
come una grossa Anguilla Sfuggente.


“Ombra! … Parlami! …
E’ pietra dura questo silenzio!
Bestemmiami, ma parlami!”

Di lontano veniva insistente frusciando
il sorriso strisciante dell’Ombra.

“Ombra!… Ombra!… Ombra!…
Che tu sia dannata per sempre!
Ti lascerò nella Notte
confusa fra le altre Ombre!
Ti lascerò ai Lupi ed al Vento!


Non ti aprirò mai più
poiché Tu non mi vieni accanto!”

E la Donna che aveva i capelli
come due amanti stanki
corse nella sua capanna
e accese la lampada
per guardare negli Occhi
l’odore della sua tristezza.


E seduta ai suoi piedi
vide l’Ombra
e sentì le sue Fruscianti Parole:
“Tu mi cerchi lontano – Donna
ed io abito nella tua kapanna”.

Allora la Donna spense la lampada
e non vide che la sua Ombra.
Tutto era Ombra.
e nemmeno poteva vedere i suoi okki.


Allora si tuffò in quell’oceano Bujo
e lo trovò nero come la sua kapanna
quando la lucerna era spenta.







Laggiù oltre la schiuma










Laggiù oltre la schiuma di questa marina
danzano grandi uccelli d’aria
sulle ginestre azzurre
e l’acqua del mare è mobile:
s’alza in grandi onde oblunghe
graffiate da unghie di gatto sulla cima.



Invece qui davanti il mare è sereno
non sa nulla di cassa integrazione
e di tesi di laurea
e sussurra appena qualche sillaba.



















Lettera al Nord











Ciao. Non scrivi più. Da tanto.
Qui l’inverno è tornato
tra gli spruzzi del mare e le folate del vento

(((la notte due gatti vengono a dormire
sulla rossa trappola)
da Firenze
i libri tardano ma so che verranno)
l’Amiata
mi aspetta bianco di neve)
il tuo prophumo slitta:
si dissolve piano nel fresko
della stagione del raccoglimento
e c’è un nuovo bollo
per i nuovi studi.


La lumaca non ha donato
la sua roulotte per la terra che balla
e l’anguilla senza cagnina
ora nuota nel Mar dei Sargassi.
Nella laguna che traverso ogni mattina
quei pesci che sai li chiamano
‘Anguille Sfumate’.







Luglio di mattina








L’Afganistan lontano geme
sibilando pallottole amare
e Carter si allena
con le sue gialle vesti.
Sapere?
“Il sapere che lo stolto acquista
non è a suo profitto
ne rovina la sorte e spezza la testa”.
Oh Tu! Scetato Profeta Buddho!
Estinto! Tu primo di Asava.
Puro nella Tua Vinnana.
Dove esaurire la nostra
paticca samuppada?

Le tue poesie dolcissime
quell’accostamento di indocili fonemi
e quegli occhi nel piatto
e Tu – e Tu – e Tu
così azzurra marina.

Il caffè sapeva di sale
l’amico si alzò
pensava a uno stupido scherzo
invece eri Tu
caduta nel barattolo dello zucchero






Luna







Poi mi lasciasti solo con la mia vittoria
piazzale En Tò Alamein rosseggiava
triste di luna
e una donna si stropicciava gli occhi
guardando la bouganvillea.

Sul mare la luna
dopo poche atmosfere
mi diceva
guardami
perché fra poche sere
tu ci sarai
ma io sarò lontana.

Oggi a skwola
c’era un banko vuoto.
Mentre parlavi
ti aggiravi per i corridoi
con una lettera
e una ciocca di capelli rossi.
La strega ero io
perduto nel tuo granturco rosso
e nella tua phascina
senza numeri.







L’uomo dell’oasi

l’uomo dell’oasi si è bagnato di nuovo
nel sangue di drago
e nessuna foglia è caduta
sopra le sue spalle.

La prima volta ignorava
la sua prima funzione
ma adesso egli conosce
la sua Prima funzione Superiore.

La seconda volta ignorava
la sua seconda funzione
ma adesso egli conosce
la sua seconda funzione.

La terza volta ignorava
la sua terza funzione
ma ora egli ha capito
la sua terza funzione.

La quarta volta aveva la faccia
della sua quarta funzione inferiore
ed egli ora guarda negli occhi
la sua Anima.

L’Uomo ha imparato a conoscere la sua Ombra
ed ha quattro lati il suo Mandàla Variegato
egli ora è un uovo kosmiko
e naviga nel Mare Galattico
della Tranquillità.

Egli ora scorge Lontani Promontori^
ove si projettano fasci di Ombre
e s’infrangono le Onde dei Ricordi
dove non cade raggio di Luce.
Egli è Colui che è Libero
e vuole essere l’unico abitante


della sua baracca di solitudine.

Nel suo deserto si è fabbricata una capanna
con penne di gabbiano e becchi di anatra
e fuori è la kalda notte arancione dell’Afrika.

Egli ha prevenuto tutti i suoi bisogni
e l’Ombra vive in una stanza accanto.

Talvolta prendono il thè
e li assale l’ondeggiare della rimembranza
loro allora lo coprono di zucchero
e girano in tondo i kukkjai di latta.

Talvolta la sua Anima ulula lugubremente
“Voglio un oggetto! …”
e lui l’akkatetza con il suo braccio di kaktus
e le dice:
“Esci pure kwesta sera
perché sono una Persona Tollerante
e indosso la Maskera Phalsa.
L’Oasi + vicina è a sole 30 miles.
Non phare tardi, Animula,
il tuo Pomeriggio è Vicino”.
L’uomo disegna i suoi Mandàla sulla sabbia
- hanno una forma simmetrica
e kapelli come un assolato mattino –
sono come il dagherrotipo della sua Ombra di Luce
e della sua Rotondità Spigolosa –
Ogni tanto l’Uomo del Deserto
accarezza con le sue Mani di Gatto
la sua amika Volpe Argentata
che si chiama Djapo
- ma lui la chiama ‘Aranga’.



L’uomo e l’ombra



Un giorno l’uomo – che era uscito
per sottrarsi all’urto dell’ “Onda dei Ricordi” –
incontrò il suo Wawao – la sua Ombra –
e così parlò l’uomo al suo puer obscurus aeternus.

“Tu continui ad uccidermi
e a darmi la vita.
Il tuo veleno mi è letale
ma mi sono assuefatto.
Con te vedo molte Ombre
che preferirei ignorare.
Non voglio essere il tuo Totem
la tua sorgente esogamica.
Non voglio – Ombra –
l’ombra della tua Ombra”.

L’Ombra se ne andò quando il sole
fu alto allo zenith. Era il primo pomeriggio.

Il giorno dopo l’uomo
di nuovo fu preda dei Ricordi
e fuori dalla sua Casa incontrò
la sua Ombra.
E così dunque l’Ombra parlò all’Uomo:
“Ascolta – Uomo – ascoltami.
Se tu resti fermo
avrai sempre la tua Ombra
tranne per brevi attimi
se sei sotto il sole a picco
o ti chiudi nel tuo covo.










Ma se tu non vuoi la tua Ombra
a farti ombra
guardala bene e riducila a poca cosa
camminando sempre
verso Occidente
passando le sponde
e le onde e i ghiacciai
camminando sempre
verso Occidente
passando le sponde
e le onde e i ghiacciai
camminando e nuotando.


Solo così per te – solo –
sarà sempre la Vita
un Giorno senza la tua Ombra.




E l’uomo sedette
e vide la sua Ombra
sedersi con lui
enorme fino all’Orizzonte.
Ed era l’ultimo pomeriggio
prima del calare delle tenebre.









Mantova ’80






Anche a tavola
la cultura ha invaso il tuo piatto
il cibo era immangiabile.

Io non sono riuscita a parlare
perché tu – assente – pensavi
e non parlavi.

Se amore dichiari amore
devi esprimere
se rabbia senti rabbia
devi esprimere
se conflitto provi conflitto
devi esprimere.

Ma il silenzio è nulla.
Ora Luglio è agli sgoccioli.
Le lezioni
la scuola, poi, gli esami e la casa.

Incomincia il caos.














Mantova ’80 – II










In macchina parlavi di Gramsci
ti seguivo ma capivi che stavi
sostenendo un esame. Ma quale?
Non c’è anche troppo impegno nella tua vita?
Ed io ti chiedo, al di là di ogni frase,
dov’è l’uomo Genna, l’hombre che conobbi?
Dove si è seppellito? Chi è? Dov’è la sua mente?
Tutte quelle letture che fai, non ti aiutano,
se non ti deciderai a cambiare ottica,
e continuerai a vivere al di là della realtà,
lascerai di te l’impressione di un uomo
che ha tagliato i ponti con l’esistenza.

Aristotele non porta lontano.
A meno che tu
non desideri arrivare in Paradiso.
Ma anche in me c’è abbastanza distrazione;
al tuo arrivo non ti ho neppure chiesto
se avevi trovato un alloggio,
così ti sei ridotto a girare di notte.

Ma perché non parlare?








Mattino a Luglio




Sta per crollare il tetto
della Grande Casa dei Gatti.
Ieri nel posto dove faccio il bagno
è annegato un pompiere.
(Tu hai paura della mia persona
ti terrorizza ancora l’idea
di nominare nostre notti lunose?).

Io qui chiuso nel mio carrarmato
di latta come un uovo di plexiglass
(nella piccola stanza dei giocattoli).
Ah! l’ampia distesa del mare
e le azzurre colline.
Bill, amico di Chinaski.

E tu, Guido, che aspetti?
Aspettando Karpinsky
- e tieni in tasca per Louis
un pacchetto di Gauloises -
tu agiti un nòstimon èmar
inarrivabile.

E tu scrivi poèsie!
“Il Poeta è cosa leggera, alata, sacra”.
Ciao!
e per le strade fangose oppure
senza più nebbia
non perderti
mia Kara Mousa!





Mattino a Luglio




Sta per crollare il tetto
della Grande Casa dei Gatti.
Ieri nel posto dove faccio il bagno
è annegato un pompiere.
(Tu hai paura della mia persona
ti terrorizza ancora l’idea
di nominare nostre notti lunose?).

Io qui chiuso nel mio carrarmato
di latta come un uovo di plexiglass
(nella piccola stanza dei giocattoli).
Ah! l’ampia distesa del mare
e le azzurre colline.
Bill, amico di Chinaski.

E tu, Guido, che aspetti?
Aspettando Karpinsky
- e tieni in tasca per Louis
un pacchetto di Gauloises -
tu agiti un nòstimon èmar
inarrivabile.

E tu scrivi poèsie!
“Il Poeta è cosa leggera, alata, sacra”.
Ciao!
e per le strade fangose oppure
senza più nebbia
non perderti
mia Kara Mousa!




Metamorfosi








Per te fui forse Attila che passa e non ristora
o forse Febo Apollo che soffre nell’ancora
fui gatto e fui scoiattolo. play boy e lo Scetato
fui Dioniso, fui Pegaso, fui Ermes nel creato.

Fui Baldo e fui Biancone con quel ciuffo di meno
che Tu conservi ancora tra l’uomo e l’elettrone;
fui limite e confine, deserto e forse oasi,
non so, ma Tu dimentica, possiedimi alla fine.

Per te fui certo multiplo, fui come un carrarmato
(si, un tank, però di plastica, col suo cannone alzato).
Fui ospite e soldato, fui anche innamorato:
odioso e petulante, fui zuppa e panbagnato.

E adesso nella notte, mentre la Luna splende,
la fine del mio tempo nelle tue guance accende
un piccolo lumino che ti rischiara tutta:
la pioggia ha rovinato per Voi tutta la frutta.











Montgomery for me



Nella piccola città dalla lunga torre
non erano pronti per me gli Stivali:
nella sera girava per l’aria
odore di legna bruciata.
Delle due chiesette
una sola era aperta.
Tu che parlavi con me non capivi:
ti sembrava phorse di essere
kaduta in un presepe phinto?

Solamente 30 anni pha
Kwal Kuno mi donò un montgomery
color kammello.
Stasera a Portobello
un Kasual Shopping
ne ho trovato uno blu notte
e subito il cappuccio
mi si è phikkato in testa.

Shouldn’t you have the answers?

In queste sere di vento
che il Mare sembra kosì ostile
hanno paura persino i Gabbiani
a volare.
In queste sere divento
come un vekkjo veliero in disarmo.
E mi sento
come una vecchia ruota di scorta.
E’ l’ultimo
dell’anno.
Phinisce
un Altro Affanno.



Nel bosco equinoziale


poi tra le brume e le sterpaglie
sulle nostre passate stagioni
nelle nostre parole venali
con le guglie e le cupole
delle celesti basiliche
fra le rose
le viole
i crisantemi
fulgida sopra tutte le stelle
più alta della cima più alta
sulla punta delle veloci plastiche
negli smaniosi contenitori dei piedi
sopra le bretelle traslucide
e plurali più misteriosi
fra le zampe dei gatti
e i vetri degli occhiali
più brillante di ogni parelio
di ogni paraselene
di ogni sole

più splendida della speranza
e di ogni disperazione
più voluttuosa e cocente
più fresca di ogni sorgente
corrente dietro le Pleiadi
preceduta da Aldebaran

apparve
la candida Rigel
e Betelgeuse esplose
mentre Sirio
la più lucida stella
galoppava lontano con Pegaso …




Nella mini phoresta boliviana



L’inverno è passato
sopra le cime alte dei cipressi
quaggiù dove non arriva il suono
delle kampane molisane.
L’inverno è passato come un lungo
addio che mi è giunto
in questo nostro maggio
ormai tutto koperto di ‘no’.


C’eri anke Tu con la tua koppa rikolma
di negazioni
di phutti mousy-kalj
e di piante tropikali
con i tuoi colpi di sonno
(i bambini ti fanno gridare?
O è l’aria della bassa
mentre kantano le raganelle
e la nebbia cade sull’Ariete
d’argento).

L’innesto non ha phuntionato
e tornando da Venetia
era bruciato il nespoliegio.
Tutto il resto verdeggia
nella miniphoresta boliviana.










? ? ?












Non Guerra vogliamo ma Pace
noi siamo i Bronzi di Riace
- sussurra la statua giuliva
- che non ha pagato mai l’ I.V.A.

666
999

la Vita che fugge rapace
mi fece assai poco loquace
per questo non trovo mai pace
e sono quel bronzo
che tace.

















Non passa niente






Tutto accade così
Velocemente.
E il guaio è che non accade niente.
Stasera il tempo è kupo.
Miagola il vento
Lontano ulula il Lupo.
Il cielo
È greve
E breve
È l’ora.
Ma so
Che altrove cade
Neve.


Bianca.
Fresca.
Sa di vento.
Tutto passa così
Velocemente.

Ma il gwaio è che qui
Non passa niente.











Okkio di pace











Io sono
quel bronzo di Riace
che guarda con okkjo rapace
ma in fondo ti offre
la Pace!





















Parliamo di rane





Le ultime tue parole erano di Ranokkjo
e inesistente, per di più.
Con immutato affetto salutavi
in me quello che fu
un iperglottico amante
o forse un ipoglottico
incostante.


Qui affoghiamo dentro regole precise
di Grammatica Greca
mentre intorno la Gente che sa
vive accendendo Mootooy
e compra compra
compra …
la lira è in difficoltà.


L'incontro di Tennis
non si è fatto.
La maglietta è di nuovo
nel suo armadio.
E tu
sempre chiusa
in quel tuo blaterare
ad altre orecchie
aperto.









Peldigatto








cadde sul cuore dei peli di gatto
spuntati a ciuffi sotto la luce
della luna
e subito il fango della sua anima
divenne pudore e si cambiò
kome phosse un vegetale.

(la donna guardava il sole cadere nel mare
e diceva sommessamente “addio!”
forse perché aveva un gusto votato
all’intensità dell’ultimo momento).

I gatti ti guardano
e aspettano la tua mano
ke li akkaretzi
oppure un bokkoncino saporito
per phabbricare i loro peli di gatto.













Parliamo di rane





Le ultime tue parole erano di Ranokkjo
e inesistente, per di più.
Con immutato affetto salutavi
in me quello che fu
un iperglottico amante
o forse un ipoglottico
incostante.


Qui affoghiamo dentro regole precise
di Grammatica Greca
mentre intorno la Gente che sa
vive accendendo Mootooy
e compra compra
compra …
la lira è in difficoltà.


L'incontro di Tennis
non si è fatto.
La maglietta è di nuovo
nel suo armadio.
E tu
sempre chiusa
in quel tuo blaterare
ad altre orecchie
aperto.










Pensieri d’un bronzo nel cassetto






In un grande cassetto bucato
d’un vecchio armadio tarlato
ho testé ritrovato
la foto d’un Bronzo di Riace
che non si vuol dare più pace
perché Tu sei poko lokwace.


La gente che ama è rapace
e parla con lingua salace
talora con verbo mordace
ma il Bronzo ama solo chi tace
per questo non trova mai pace.


La statua era un tempo giuliva
quando nel tempio saliva.
La gente che nulla capiva
per poco non la divertiva.
Ma ora non sa darsi pace:
nessuno è più tanto audace
da viver mostrando il torace.













Piazza Saffi






Di te il ricordo ancora innaffi:
poke parole skrivi
dietro la kartolina
di Piazza Aurelio Saffi.


Non sai farti capace
k’io sia bronziphicato
come un guerriero
ke tace.

Ma si.
Hai phuso e deposto tu stessa
me fatto metallo rovente
nella phorma di njente
che sono
ke sj-amo
che phummo
(e phumo
noi ormai
non più saremo).









Piccolo paese



C’è un piccolo paese qui vicino
poco lontano dal Mare
ha strade chete e strade e torri
e chiese
e tutto è così minuscolo
che quasi
lo diresti abitato dalle Phate.

C’è un piccolo bar
con cartoline
e gente che gioca a scopone.
D’inverno
qui dentro i cacciatori si esaltano
e si akkalorano
rincorrendo lepri e phagiani
immaginari.


Questo paese così piccolo
vorrei girare ora con Te
nella nebbia e nella pioggia
di questo Aprile tedioso.


E’ un paese dove fanno stivali
come un tempo li portavano i butteri.
E c’è una torre
e una bella terrazza
sopra una valle
ora verde ora rossa
sempre piena di kanti pennuti.








Premilcore




strizza il cuore stasera
tornando a casa
e respirane il prophumo dei ricordi.
Rikordati di kwel pagliaccio
ke un anno pha ti sphiorò i kapelli
e voleva contarli
ma sapeva che eri kalva.

Al buio cercavate l’orekkino
sulla spiaggia deserta
skonphinata (!) di Romagna.
Dapprima con l’aiuto di una piccola
luce erotica (acquisto ignaro).

In pisseria al tavolo vicino
studenti parlavano d’esami
e tu:
“ah! … ma stavolta vengo io … a Natale … …”.
E ancora:
“se almeno tu abitassi + vicino! …”.

Non ti ho rivista +
ma Tu
stasera premilcore
e vola
Amore!










Questo tempo passa




Non vedi come questo tempo passa
e come tutto si perde nel nulla?
Lo vedo perché sempre + frequentemente
tagli la cima della siepe
e i rami del marasco.


Quest’anno ho colto solo sette nespole
e altre quattro sono rimaste in alto
nel caso arrivassi Tu.
Le hanno mangiate grossi coleotteri verdi.
Ho scritto “vendesi”
sulla Grande Casa dei Gatti:
forse ogni speranza
d’un improbabile ritorno all’inizio
scompare.

Il vento cercava di strappare
il grosso foglio
e pioveva forte.

Non vedi come questo tempo passa
e come tutto si perde nel nulla?














Rimasuglio






che resta adesso di quello che eri?
Lacrime e lutto, cenere e rimorsi,
ora che tutti ci siamo accorti
che solo i rettili sono sinceri.

E tremeranno poi le stelle verdi
si spaccherà il cuore del Pianeta
- il giorno che viene: ritmo
la notte che va: perfezione.

Fermati sulla porta, non uscire!!!
Qualcuno ha rubato le scale.



















Santa Lucia


Adesso a San Leo sarà caduta la neve.
Immagino bianca
sotto la Luna
la piccola Pieve.
Tu cosa fai? Ke leggi?
Non voglio saperlo.
Immaginarlo. Forse.
Phra poko è Natale.
E’ lontano il tempo di Ci-cale.
Il tarlo
del ricordo riprende a scavare.
Ma è lontano nel Mare
quel giorno lontano.
Non ti ho mai letto la mano?

Ma si. Però era bujo.
Ricordo solo
una mano uguale alla mia.
E’ notte.
Kome due anni pha.
Allora
si conphuse la pioggia e la phontana.
Avana
è la mia nuova agenda.
A djorni è phiera.
E’ Santa Lucia.
Ci saranno mille bankarelle
e Tu kamminerai
esitante
in kwel parapiglia
se comprare piadina
oppure
una nera conchiglia.







Sbrano










e quando mi sono rivelato
mi ha detto “sei simpatico”
però la Luna è tonda.
Il mare? Sa di umido
e cerco l’altra sponda”.

Spesso – Felicità –
sei sopra l’altra riva.
Idiota chi ci arriva.


























Sorrisi e sospiri







Nella nebbia che grigia s’addensa
non bastò un sorriso tardivo
coperto di neve futura
a sciogliere il groppo di sale
e di spuma marina.

La mattina
è sempre fatica levarsi.
La sera
tuffarsi nel buio non sempre sicuro.

Sul muro
ho appeso sorrisi
appena accennati
sopra sospiri improvvisi
e lontani.
Passati.














Stralunare I




Ancora non riesco a farmi capace.
Stanotte nel sogno ero di bronzo.
Ero uno
dei Bronzi di Riace.
Nella Notte di Santa Lucia
ero immerso in curiosi miscugli:
ero a bagnomaria.



Mi toglievano a Kroste
il tempo passato
il tempo perduto nel mare
a nuotare
a remare.



Il mio Tempo Passato cadeva a brandelli:
ero uno
dei due Giganti Gemelli.
Ed avevo perduto lo scudo
ed avevo smarrita la lancia.
A bagno negli acidi avevo
persino un po’ mal di pancia.
Intorno a me discutevano
a frotte
artisti. E la notte
era come di giorno:
c’era sempre Kwalk Uno Di Torno.








Un tempo eravamo a migliaia.
Ma adesso io proprio non so
più pharmi kapace.
Come due sassolini di ghiaia
scampati al massacro
immobili e stupidi a Riace
ci guardano muti e un po’ tristi
clienti e turisti
studiosi dai vetri appannati
studenti
e dottori incantati.
Arrivano
un po’ stralunati
persino ministri.


Li chiamano qui ‘deputati’
gli odierni ripritanizzati.


Un destino davvero rapace
essere un Bronzo di Riace
a me poco piace.


Mi dispiace
così senza scudo né spada
a ciascuno far viso
di pace.








Speranza




Credo che prima o poi
e me lo lego al dito
(io) fonderò un Partito!
Piccolo come il Mondo
e grande come un granello
di sabbia sottile. Un gioiello.
Un monile.
Il suo simbolo?
Un orecchino
leggero e fino
di oro zecchino
come quello perduto nel Mare
senza nemmeno nuotare
né bere o affogare.
Un Partito con crisi e con scismi
in cui sia sempre Natale
e mai Carnevale.
Sarà un Partito spartito
in confetti.


Qualcosa di nuovo
coperto di stucco
e vecchio direi
come il kukko.
Un Partito di Pace
di bronzo
ma non un partito di Riace.
Un Partito senza dissensi.
Senza parenti.







Con pochi denti
e senza consensi di assenti.
Un partito pieno di okkj
ermetico e chiuso ai finocchi
ai fessi ed ai pederasti.
Un gruppo senza contrasti.
Un Partito senza canestri
per gli extraterrestri.


Il suo stemma sarà una stella.
Ma non coperta di sangue.
Un po’ forse simile a quella
che i Re detti Magi
seguirono lemme e rilemme
fino alla Santa Betlemme.

Una stella kaduta.
Finita.
Svanita.
Perduta.

Aspetto Kwal Kuno
da lontano
che voglia darmi una mano.
Non aspetto consigli e lanute creature sperdute
e nemmeno conigli o fameliche lupe.

Aspetto qualcuno
spero
Ti rassomigli.





Trinità 15








Nelle tue bianche buste colme
di conchiglie e di nastri musicali
e nei tuoi occhi come di uno scosceso
animale in agguato
c’è un arcaico passato.

Qualcuno si lamenta
per lettere difficili da recapitare
e lassù al Nord
organizzano premi e premi
per gli analfabeti eredi di Saffo.

Al nespolo del Giappone
ho messo due rami a spacco
di ciliegio marasco.

Stanotte, in sogno, ti ho parlato.
Pochi minuti, alla stazione,
di passaggio. Non so dove.
Dalle parti tue.
Svegliandomi, ero offeso.
Perché Tu non mi hai chiesto
di restare.

E intanto gira l’orologio.
Di questo passo, Agata,
finisco in Paradiso.







Un mare di piccioni affamati



Oggi a Piazza del Campo
C’eravamo proprio tutti.
Due bambini mi facevano volare
Addosso un mare
Di piccioni.

“Quali colombe dal desio chiamate”
gli amanti ci restano fedeli
come cani accucciati
a un nostro fischio
tutti rispondono.
Ma c’è qualcuno
Un bambino non capisce il gioco
Che non risponde all’appello.

Questo mare di fedeltà molteplici
Che ci tiene avvinti
Sulla strada dell’Appetito.

A Lui siamo fedeli.
Questo mare di legami abnormi
Che ci rende così liberi e servi.
Quest’oceano di frasi
Arbitrarie che avvinghiano
Le nostre così sante menzogne.

E tutto
È solamente
Un volo di piccioni affamati.







Vattene




tutto è pronto per la Tua Partenza.
Vattene. Non voglio più parlare con Te.
Che io non Ti riveda mai più.
Non voglio + dirti
ke passo le Ore a parlare
con i tuoi phantasmi
né che ti detesto
se riesci a respirare
a leggere
a godere Altro
dal tormento del mio pensiero.

Vattene.
Tutto è stato preparato
per questo Addio Astioso.
Anche la mia blesa dolcezza.
Ho bisogno di saperti Perduto
e di rimpiangerti per sempre
di passare i miei minuti
ad aspettarti
Amore.

Per kwesto vattene.
Tutto è pronto per la mia partenza
e per questa inutile disperazione.








Verso l’Universo






l’Uomo si chiuse nel suo Uovo Cosmico
perso nel Mare Galattico della Tranquillità
dopo che la sua Ombra fuggì
verso l’altra sponda – senza più misteri.

Nulla e nessuno più avrebbero infranto
quel suo solare torpore d’anima
nemmeno con rikiami d’amore.

Mise un ultimo kammello marrone
sopra una poesia scritta in Latino
con parole greche e anglosassoni
e partì sul suo vascello d’avorio.

Il dio ritornò sul Parnaso
un dio piccolo e vero ed amabile
solamente se assente e lontano.

Spedì la poesia alla sua ultima Musa
che nemmeno lo riconobbe
e voleva condurlo nel mondo dei Poeti:
ma lui di là proveniva.

E ne conosceva l’essenza:
il Nulla che urge alla Forma.
Lasciò i suoi allori a Dioniso
e tenne per sé il Nulla Puro Assoluto.
Eterno e Lontano: il Futuro.

§
§§
















§§§
§§
§