lunedì 1 settembre 2008

Appunti sul Mito x Anna

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colginestra: il Mito


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APPUNTI SUL MITO

x Anna Maria

Psykhes jatreia
MITO E PSICOANALISl


Gennaro di Jacovo

La 'mania' è dunque intrinseca alla sapienza greca.
La manìa di cui parla Patone, come si è visto. Attraverso l'oracolo, Apollo impone all'uomo la moderazione, mentre lui stesso è smoderato, lo esorta al controllo dì sé, mentre lui si manifesta attraverso un « pathos » incontrollato: con ciò il dio sfida l'uomo, lo provoca, lo istiga quasi a disubbidirgli.

Tale ambiguità si imprime nella parola dell'oracolo, ne fa un enigma. L'oscurità paurosa del responso allude al divario tra mondo umano e divino.

Edipo eccelle per l'intelletto. Deve dimostrarsi invincibile nelle cose dell'intelletto. Per il sapiente l'enigma è una sfi¬da mortale.

Ma lui, che vince la Sfinge con la consapevolezza, perde sé stesso con l'azione violenta e momentanea,
« dionisiaca », dell'inconsapevole uccisione del padre, sia pure per difesa della propria vita.
L'inconsapevole non è di Apollo. È colpa.
In questo modo, ha valore la teoria di Freud.

C'è pure un prezzo per chi si oppone a chi lo ha fatto essere, e si oppone così duramente. Del resto, sarà Edipo stesso a punirsi, questa volta
« consapevolmente ».

L'importanza dell'inconscio, il suo operare nei miti come nei sogni, gli effetti specifici delle emozioni represse, l'esigenza di soddisfare certi desideri, sia pure nella fantasia, queste sono le più no¬tevoli e preziose intuizioni di Freud.
I suoi seguaci le hanno ulteriormente affinate. Per esempio l'antropologo americano Clyde Kluckhohn in un saggio intitolato Myth and Ritual: General Theo-ry, muove dal presupposto che i miti e i rituali sono correlati. I miti non dipendono dai rituali, sono piuttosto una forma alternativa di espressione di un unico stato psicologico.

Entrambi rappresentano « risposte di adattamento » a situazioni produttrici d'ansia ed effettuano una gratificazione mediante la « riduzione dell'ansia ».

In altre parole distraggono la nostra attenzione dalle cose spiacevoli della vita ed avviano alle preoccupazioni specifiche con forme ritenute efficaci di comportamento rituale o di rac¬conto consolatorio. Un'altra loro funzione, secondo Kluchhohn, è conseguire una « sublimazione delle tendenze antisociali »,
lo « sfogo delle emozioni degli individui in canali socialmente graditi ».

Ossia i miti sull'omicidio o sull'incesto ci purificano da una morbosa preoc-cupazione circa queste cose, laddove la uccisione rituale dirige i nostri impulsi sadici verso una forma socialmente accettabile e addirittura utile. Qui però si nota la tendenza ad imporre un motivo universale a tutti i miti.

Abbiamo già espresso riserve, precedentemente, per le teorie univoche ed onnicomprensive (« monolitiche ») del mito.

Anche Albin Lesky (Storia della letteratura greca, voi. I, il Saggiatore, Milano 1973, pag. 36) sostiene che « aveva¬no torto quanti hanno cercato di spiega¬re l'evoluzione di questi miti riconducendoli tutti a una sola radice. Abbiamo imparato a distinguere i diversi colorì nella trama e nell'ordito, e sappiamo che nel miti greco era riunita, in una formazione durevole, una variopinta moltepli¬cità di elementi eterogenei: ricordi elaborati con la massima libertà stanno accanto ad antiche storie di dèi, l'interpretazione etiologica del culto va unita ad antichissimi motivi favolistici o alle invenzioni prodotte dal gusto ingenuo del novellare.

Di rado, in queste creazioni, compare il simbolismo naturalistico ».

Molti miti si occupano chiaramente di cose diverse dalla « riduzione dell'ansia » o dalla sublimazione dei nostri istinti più aggressivi: i miti-patente, i miti di crea¬zione e così via.
Analogamente, molti tipi di rituali hanno altre finalità: ad esempio, quelli che mantengono il culto di un dio, poniamo con la solenne pulitura dell'apparecchio divino, come nella festa ateniese dei Plynteria, in cui il manto di Atena veniva an¬nualmente portato in processione fino al mare e lavato. L'amore per il cerimoniale pare una motivazione rituale di tipo di¬verso, così come l'amore per i bei racconti fornisce una diversa motivazione dei miti.
Ma se l'ansia è uno « stato di incertezza, di allarme », una forma attenuata d'an¬goscia ma priva, al contrario di questa, di modificazioni psicologiche, e vissuta nel più intimo di noi stessi, quasi incorporata al nostro « essere morale », dagli effetti stimolanti o paralizzanti, in grado di modificare le nostre difese attive o segnalare alla nostra coscienza il sorgere di un profondo disordine, allora qualsi-voglia «risposta», rituale, etiologica'o di qualsivoglìa altro tipo, allontana l'ansia, in ultima analisi.

Pur rispettando le diverse teorie sull'interpretazione del mito, direi che la teoria di Kluchohn, più che essere una teoria onnicomprensiva, o un'ulteriore teoria, è una « teoria sovra-comprensiva » dell'interpretazione del mito: ogni risposta, infatti, non annulla l'ansia? Fa nascere altri atteggiamenti e coloriture mentali: Ira, terrore, gelosia, invidia, amicizia o amore. O indifferenza (AA.VV. La psicologia moderna, Sansoni, Firenze 1968, v. « ansia », pagg. 21-22).

La « sublimazione delle tendenze antisocia¬li » è un'idea più specifica, già proposta da A.M. Mocart e da altri (G.S. KIRK, op. cit. pag. 75), ma la origine prima è la purificazione aristotelica del terrore e della pietà.

« Tragedia è opera imitativa (mìmeesis) di un'azione seria, completa, con una certa estensione; eseguita con un lin¬guaggio adorno distintamente nelle sue parti per ciascuna delle forme che impiega; condotta da personaggi in azione, e non esposta in maniera narrativa; adatta a suscitare pietà e paura, producendo di tali sentimenti la purificazione (cà-tharsis-catarsi) che i patimenti rappresentati comportano ». Così Aristotele (Dell'Arte poetica, 6, 2, a e. C. GALLAVOT-TI, Mondadori, Milano, 1974, pag. 19) mette in connessione il materiale « situazionale » usato dai tragediografi con il deposito di racconti mitici fissati in grup¬pi dalla tradizione: «... Infatti i poeti dapprima prendevano i racconti dove capitava, ma ora le più belle tragedie che si compongono si riferiscono a poche famiglie, come quelle di Alcmeone, Edipo, Oreste, Meleagro, Tieste, Telefo, e di quanti altri si trovano a patire e commettere fatti terribili (Aristotele, op. cit. 13, 4, pag. 43). Il termine 'mythos (miùthos)' (mito) viene reso in italiano con « racconto » dal Gallavotti.

A questo proposito, il filosofo greco precisa precedentemente: « ... poiché la tragedia è mimesi di un'azione, ed è compiuta da un certo numero di persone che agiscono, queste debbono avere, per forza determinate qualità per quanto riguarda i caratteri e i ragionamenti, percbé proprio rispetto a ciò noi diciamo che sono qualificabili le azioni; pensiero e carattere sono appunto le due cause delle azioni, e nette azioni tutti gli uomini provano sia il successo sia l'in-successo.

Del fatto per sé stesso il racconto (mito \ miùthos) costituisce l'imitazione: questo dunque si chiama racconto, la composizione degli avvenimenti; d'altra parte il carattere è quello per cui definia¬mo secondo certe qualità quelli che agi¬scono; e il pensiero sono i ragionamenti che essi espongono per dimostrare qual¬cosa, o semplicemente per dichiarare un' opinione » (ARISTOTELE, op. cit., 6, 4-5-6, pag. 21).
Ancora, è notevole la distinzione pro¬posta fra prosa e poesia: « Da quanto si è detto anche risulta evidente che l'opera del poeta non consiste nel riferire gli e-venti reali, bensì fatti che sono possibili, nell'ambito del verosimile o del necessa¬rio. Lo storico e il poeta non sono differenti perché si esprimono in versi op¬pure in prosa; gli scritti di Erotodo si possono volgere in versi e resta sempre un'opera di storia con la struttura metrica come senza metri. Ma la differenza e questa, che lo storico espone gli eventi reali, e il poeta quali -fatti possono avve¬nire» (ARISTOTELE, op. cit., 9, 1, pag. 31).
I concetti fondamentali di Aristotele sull'arte sono « mimesi » e « catarsi ».

In un'altra sua opera fondamentale, dice: « Ebbene, questo stesso sollievo dalla ten-sione psichica debbono necessariamente provare (assistendo a una tragedia) quelli che sono proclivi alla commiserazione, o facili a spaventarsi, o in generale sogget¬ti alle emozioni » (ARISTOTELE, Politica, 8,4).

Provano la stessa sensazione, cioè quel¬la di uscire da una cura medica, e quindi accade loro di sentirsi purgati, liberati dagli umori cattivi, non del corpo ora, ma dell'animo, e sentirsi sollevati con un sen¬so di piacere (C. GALLAVOTTI, il Piacere della mimesi catartica, sta in ARISTO¬TELE, Dell'arte poetica - op. cit. - pag. 234).

Aristotele, però, parla di « quelli che sono proclivi alla commiserazione, o •facili a spaventarsi o in generale soggetti alle emozioni ».
Sono così tutti gli uomi¬ni.
O ce ne sono pochi, così?
E sugli altri qual effetto farà la narrazione? (i Greci « narravano » il male, non lo rappresentavano. Nietzsche direbbe che è ancora più malvagio per i
« puri » e gli « innocenti» narrare al di là del bene e del ma¬le la propria malvagità, piuttosto che esi¬birla. Sono solo i « malvagi », quindi, ad esibire il male.

E gli « attori », cosa sono? ... Siamo tutti attori, e la parola è enigma, menzogna, falsità.
È freccia le-tale di Apollo, giuoco mortale. Si salva solo l'eroe ed il sapiente.
Teseo, che con l'aiuto della donna-dea uccide l'animalità (Minotauro- Dioniso), ma senza traco-tanza. E del resto, se lo stolto in rovina nel Labirinto (lògos), la sfida di Dioniso (il dio animalità e istinto momentaneo, godimento del passato nella memoria e nell'oblio), cosa resta al « sapiente »?... il Dolore e la Sofferenza per la Conoscenza del Male. Non c'è soluzione.

Shopenhauer propone la negazione della volontà di vi¬vere.
Ma si è ben guardato dall'attuarla.
L'ha solo proposta ai fervidi lettori.
Lui ha aspettato sapientemente « la fine del¬la rappresentazione »).
La narrazione e la rappresentazione della « violenza » e del male, a volte incita alla malvagità. Come il piacere, il dolore rende schiavi della sofferenza, in un cerchio senza inizio e senza fine.
A che vale dire « il male 'non' è "male", né "bene": 'è' e basta! Va accettato e vissuto »?
Tutti cerchiamo il « bene ».
Anche chi crede di averlo trovato nel male.
Distinguere è necessario.
Vitale.
Ma può essere mortale.
Aristotele propone di purificare i puri, dunque. Perché? Forse perché i puri sono i malvagi? O forse perché la malvagità è in agguato e bisogna sempre vigilare?
Siamo tutti un misccuglio di bene e di male.
Ciò che è bene è spesso contemporaneamente male.
E anche giudicare, spesso, è arduo.
« II piacere rovina lo stolto non colui che vede l'altra sponda. Per sete di piacere lo stolto rovina gli al¬tri e se stesso » (Canone Buddistico, L'Or¬ma della Disciplina — (Dhammapada), Boringhieri, Torino 1980, pag. 80, n. 355).


Come Aristotele, il Buddho (Lo Svegliato), dopo aver dato santi consigli ed eccellenti esortazioni, dice che, una volta « estinti » e liberi dalla stolta ricerca del piacere, se ne può godere senza re-starne schiavi.
Si diventa come chi sa iniettarsi la morfina senza restarne assuefatto.
O come chi elimina dall'amore ogni implicazione « sentimentale », che da noia e perdita di tempo, e tutto ridu¬ce al semplice atto sessuale. O, per me¬glio dire, vive (Dioniso?) in pochi attimi tutte le implicazioni che coinvolgono quelli che, considerando l'atto dell'unione sessuale « il tetto d'una casa », « per-dono tempo » a costruire solide fonda-menta magari sulla sabbia, dimenti¬cando di fare, infine, il tetto.

È una diffe¬renza di « tempi »? Apollo, che lungo sorride e breve saetta doloroso, o Dioniso che gode nella ripetitività d'un passato vissuto nella morte del presente?
Far vedere cose turpi ai « buoni », perché possono e sanno essere veramente malvagi, esibire il male ad attori per mez¬zo di altri attori?
E chi salverà gli attori sulla scena finta? Finta rappresentazio¬ne, mimesi, d'un'altra menzogna? E cosa faremo vedere ai malvagi? Il bene? Perché lo deridano? Perché lo crocifiggano?

Il mito del Labirinto!

« La forma geometrica del labirinto, con la sua insondabile complessità, inventata da un giuoco bizzarro e perverso dell'intelletto, allude a una perdizione, a un pericolo mortale che insidia l'uomo, quando egli si azzarda ad affrontare il dio-animale (Minotauro-Dioniso). Dioniso fa costruire all'uomo il
Labirinto: opera di Dedalo, un Ateniese, personaggio apollineo in cui confluiscono, nella sfera del mito, le capacità inventive dell'artigiano che è anche artista — tramandato come capistipite della scultura — e della sapienza tecnica che è altresì prima formulazione di un lo¬gos immerso ancora nell'intuizione, nell'imma¬ginazione. La sua creazione oscilla tra il giuo¬co artistico della bellezza, estraneo alla sfera dell'utile e l'artificio della mente, della ragio¬ne nascente, per sbrogliare una fosca, ma concretissima situazione vitale.

Tale è la vacca lignea che Dedalo costruì per Pasifae, moglie di Minosse, perché costei potesse soddisfare la sua folle attrazione per il toro sacro.
Tale il gomitolo di lana dato ad Arianna.
Qualcosa che ma-nifesta assieme giuoco e violenza è infine l'ope¬ra più illustre di Dedalo, il Labirinto. Il Jogos.
La ragione, dove il Minotauro (Dioniso), l'animalità, il frutto degli amori di Pasifae è stato rinchiuso da Minosse. Dedalo, artista apollineo, dove la misura ed il bello nascono dalla iollia e dal senza misura, crea il Labirinto, giuoco violento e raffinato, creazione umana, dell'artista e dell'inventore, dell'uomo della conoscenza creatrice, dell'individuo apollineo, ma al servi¬zio di Dioniso, dell'animale dio prigioniero del frutto della ragione.

Minosse è il braccio secolare di questa divinità bestiale. Dioniso, quindi, l'animalità che va imbrigliata dalla ragione. Che tende alla ragione, ma che sarà uccisa, morirà nella ragione per mano dell'eroe, di Teseo.

Apollo, il senza confini, l'intollerante, lo sfrenato, il dio della follia, della mania, che suggerisce con i suoi responsi la misura, il « nulla di troppo », il « conosci te stesso ».

Dioniso ed Apollo, dunque, affini, uguali.
Tendono, dalla bestialità momentanea e dalla follia costante, alla misura, alla ragione. Ma Dionisio muore, nella ragione. Ha breve il suo tempo. E poi rinasce, concretizzato l'atto razionale nella creazione artistica, in un altro giuoco.

Apollo non muore mai.
Può dare la morte, perché egli è la follia che diventa conoscenza, e la conoscenza da il dolore, e la soffe¬renza è morte.

*** > testo integrale > *** ... Il dio che muore, nella creazione che lui ha provocato, ed il dio che da la morte, nella conoscenza che lui ha consigliato. Ed am¬bedue vengono dalla follia, dall'ebbrezza. Ma t tempi, i tempi, sono a loro assai diversi. Diver¬so è il tempo per chi muore, è breve, da quel¬lo di chi la morte dona come una sfida. Ed am¬bedue, dunque, danno la vita. Ma Dioniso da la vita del corpo, che poi torna allo spirito. Apollo da la vita dello spirito, che poi torna al corpo. Dioniso, musica, arte, godimento, ragione, fi-losofia, godimento, arte, musica Apollo. Apollo e Dionisio. I sempre presenti. I sempre assenti. Presente l'uno assente l'altro. Gli dèi della mor¬te e della vita. Gli dèi uguali, comuni, affini, complementari, ma MAI PRESENTI INSIEME E NELLO STESSO MOMENTO. L'uno porta al¬l'altro, e fa pensare all'altro, ma l'uno e l'altro si escludono a vicenda. Non sul piano metafi¬sico, né estetico, né etico. Ma sul piano dell'esi¬stenza smessa: dell'essere quello che ciascuno non può assolutamente essere, se non diven¬tando sempre altro ed uguale a sé stesso.)
una trappola in cui egli perirà proprio mentre egli si illude di attaccare il dio. Apollo pone l'enigma all'uomo, e lo sfida.
Gli dèi amano l'enigma, e per nulla la chiarezza. Dioniso pone il labirinto come sfida all'uomo. Ambedue i doni sono mor-tali, fonte di sofferenza: l'Arte e la Cono-scenza. Ambedue generano ed escludono l'altra. (...) L'enigma (...) è l'equivalente nella sfera apollinea di quello che il La-birinto è nella sfera dionisiaca: il conflit¬to uomo-dio che nella visibilità viene rap-presentato simbolicamente dal Labirinto, nella sua trasposizione intcriore e astrat¬ta trova il suo simbolo nell'enigma. Ma come archetipo, come fenomeno primor¬diale, il Labirinto non può prefigurare al¬tro che il « logos », la ragione. Che cos'al-tro, se non il « logos », è un prodotto del¬l'uomo, in cui l'uomo si perde, va in ro¬vina? Il dio ha fatto costruire il Labirinto per piegare l'uomo, per ricondurlo all'ani¬malità: ma Teseo si servirà del Labirin¬to e del dominio sul Labirinto che gli of¬fre la donna-dea (Arianna) per sconfigge¬re l'animale-dio. Tutto ciò che si può e-sprimere nei termini di Schopenhauer: la ragione è al servizio dell'animalità, del¬la volontà di vivere; ma attraverso la ra¬gione si raggiunge la conoscenza del do¬lore e della via per sconfiggere il dolore, cioè la negazione della volontà di vivere » (G. COLLI, op. cit., pag. 29).
Ecco, dunque. Dioniso porta alla mor¬te, all'inesistenza come estrema vittoria sulla schiavitù dell'animalità. Ma può es¬sere una morte continua, ripetuta ritual-

mente sul piano del mito che non sa di essere tale. Che si appoggia sulla memo¬ria, sul ricordo. È una morte che vince la morte, a patto che non si conosca nel-l'apollineo tempo della lunga e dolorosa consapevolezza. La memoria disseta l'uo¬mo e gli da vita, lo libera dall'arsura del¬la morte. Con l'aiuto della memoria « sa¬rai un dio anziché un mortale ». Memo¬ria, vita, dio sono la conquista misterica contro l'oblio, la morte, l'uomo che ap¬partengono a questo mondo. Recuperan¬do l'abisso del passato l'uomo si identi¬fica con Dioniso. Quindi, Dioniso non so¬lo dio della crcudele bestialità. Questo mitigarsi di Dioniso prende il nome di Orfeo. Ma alle spalle di questo manife¬starsi musicale di Dioniso c'è un evento intcriore, sconvolgente, l'allucinazione li-beratrice dei misteri, la grande conqui¬sta mistica dell'uomo greco arcaico. Dice Pindaro dei misteri eleusini: « Beato co¬lui che avendo visto quello entra sotto la terra: conosce la fine della vita e co-nosce il principio dato da Zeus ». Chi ri¬vela « quello » — l'indicibile oggetto che nei misteri l'uomo trova dentro di sé — è Dioniso, e Orfeo ne è il cantore. I più antichi documenti orfici, papiri e lami-nette funerarie del quarto, terzo secolo a.C., sono una traduzione poetica, acci¬dentale, non letteraria, dell'evento miste-rico, il cui prodursi intcriore è rimasto nascosto, sottratto a ogni tradizione, ma il quadro scenografico, con gli oggetti rituali e le azioni che lo accompagnava¬no, poteva essere restituito dalle parole farneticanti di una poesia simbolica. Stu¬pefacente è la forma drammatica che as¬sumono alcuni di questi documenti or¬fici, quasi che appartenesse sin dall'ori¬gine al rituale misterico, o almeno si ac¬compagnasse ad esso, un'azione tra per¬sonaggi, una rappresentazione sacra. Nel¬le laminette funerarie troviamo un dialo¬go tra l'iniziato e l'iniziatore ai misteri: nella progressione di questo dialogo si proietta il riflesso della conquista della visione suprema.
È forse questo aspetto teatrale, dram¬matico dei misteri ci offre anche un'altra via per esplorare l'origine della tragedia greca. Con tale ipotesi si accorda del re¬sto assai bene la notizia di un processo contro Eschilo per aver profanato i mi¬steri eleusini: come, se non attraverso le sue tragedie, gli sarebbe stata possibile una tale ampia divulgazione?
Attraverso la natura dei simboli … che

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compaiono in questi documenti orfici, gli attributi di Dionisio e gli oggetti che accompagnano l'evento dell'iniziazione, noi riusciamo a raggiungere una visione più benigna, redentrice, di Dioniso.
Dio della morte come rivelazione, quin¬di della rinascita. A meno che la morte non sia tale sempre e comunque. Dioniso chiama a sé gli uomini vanificando il lo¬ro mondo, svuotando di ogni consistenza corposa, di ogni pesantezza, rigore, con¬tinuità, togliendo ogni realtà all'indivi¬duazione e ai fini degli individui. In que¬sti frammenti orfici Dioniso è un fanciul¬lo, e i suoi attributi sono giocattoli, la palla e la trottola. Un elemento lucido appartiene anche al modo di manifestar¬si agli uomini di Apollo, nelle espressio¬ni dell'arte e della sapienza, ma il giuco apollineo riguarda l'intelletto e la parola, il segno: in Dioniso invece il giuoco è im¬mediatezza, spontaneità animale che si gode e si compie nella visibilità, tutt'al più è affidamento al caso, come già ac-cennato, secondo quanto suggerisce l'al-tro attributo orfico dei dadi. Direi che A-pollo è nel mito quello che in linguisti¬ca è il « significato » (langue), e Dioniso è il relativo corrispettivo del « significan¬te » (parole). Apollo e Dioniso, come « ca¬pacità » e « realizzazione ».
Il simbolo più arduo e più profondo, citato in un papiro orfico, è lo specchio.
Guardandosi allo specchio Dioniso, an¬ziché sé stesso, vi vede riflesso il mondo.
Dunque queste mende-, gli uomini e le
cose di questo mondo, non hanno una realtà in sé, sono soltanto una visione del dio. Solo Dioniso esiste, in lui tutto si annulla: per vivere, l'uomo deve ritor¬nare a lui, immergersi nel divino passato. E difatti nelle laminette orfiche si dice dell'iniziato che brama l'estasi misterica: « sono riarso di sete e muoio: ma datemi, presto, la fredda acqua che sgorga dalla palude di Mnemosyne ».
Dunque, il dio che dava la morte, da la vita e la felicità? E Apollo, che da la conoscenza, da il dolore e la morte?
Dioniso da la felicità dell'attimo a chi sa viverlo recuperando il passato. A chi « sa farsi restituire dal passato un vero presente ». Si conosce solo quello che si fa. Il passato, noi lo abbiamo fatto. Chi veramente « ricorda » il passato, lo ha in tutto e per tutto « dimenticato ». Lo pos¬siede in sé, dentro la sua persona, ed il passato non lo tormenta. Non si può es¬sere, dunque, sempre dalla parte di Dio-

niso. Sarebbe vivere un impossibile « car¬pe diem » ogni attimo. Quindi Dioniso è la fusione con il tutto che conosciamo per brevi attimi e che solo gli stolti pos¬sono illudersi di vivere volontariamente, consapevolmente. Dioniso è l'amore, che può essere tormento, ebbrezza, godimen¬to. Dioniso non è l'oblio che si ricorda di sé, né la memoria che si riconosce. È l'assenza dell'oblio e della memoria in quanto sentimenti duraturi e coscienti. Questa è la « morte » che da Dioniso. Brevi momenti di vita, che la consape¬volezza iiccide. È Apollo, che uccide Dio¬niso.
Poiché la tragedia, e la sua catastrofe, nascono dall'inconsapevolezza che gode e si scopre nella sua nullità, nella sua inesistenza, nella sua violenza. Il sapere che sa di sapere, non da bene né male, ed uccide la Sfinge, e fa continuare la vita. L'enigma posto da Apollo è risolto, e nulla cambia. Ma il furore che prende Edipo quando uccide il padre — senza sapere nemmeno che è suo padre — è por¬tatore di mali che ricadranno sull'eroe e sulla sua città. Non sapere quello che si fa, per realizzare solo sé stessi, è l'ani¬ma della tragedia. Il sapere, indagando dentro di sé, la consapevolezza e l'espia-zione è il ritorno di Apollo, e tutto rico-mincia dove è finito, solo, mancano gli oc¬chi, a Edipo. Ma ha dentro di sé una veri¬tà che può ancora perdere e ritrovare mil¬le volte, come succede sempre nella vita di tutti gli uomini che Dioniso fa godere e morire, e Apollo uccide e fa rivivere. Dèi della morte e della vita. Del dolore e del¬l'ebbrezza.
Ma Orfeo, la stessa voce di Dioniso, ha trovato la felicità? Ha senso parlare di felicità e di infelicità, o male e bene sono la stessa cosa, o sono due cose u-guali ma non simili? È perché il male partorisce il bene e viceversa?
Orfeo. Il divino cantore. Egli « è » an-che un devoto dì Apollo. Il domìnio dì Apollo e di Dioniso è lo stesso: l'arte e la musica, la follia e la ragione, e si po¬trebbe dire: l'ispirazione e la tecnica; il sogno e l'ebbrezza. Ma non si sogna u-briachi, né si compone solo con l'ispira¬zione o solo con la tecnica, né si parla senza pensare, né si pensa senza parlare. Se l'animalità tende alla ragione, che poi l'uccide, la follia alla misura, che l'estin¬gue, è anche vero che spesso la misura e la ragione partoriscono la follia e la man¬canza d'ogni misura.


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Apollo e Dioniso non debbono posse-dere contemporaneamente l'uomo, ma in successione e separatamente, ed i tempi di Apollo sono molto più lunghi di quelli di Dioniso.
Altrimenti, l'uomo viene dilaniato dal¬le due forze che si escluderebbero a vi-cenda, come il giorno e la notte, che sono sempre la stessa situazione del Sole ri¬spetto alla Terra, ma non della Terra ri-spetto al Sole. E c'è il crepuscolo, e l'al-ba, che paiono essere giorno e notte, né giorno né notte. Ma sono la notte che fugge il giorno ed il giorno che fugge la notte. Per brevi attimi si fondono. In al¬cune parti della Terra, l'alba ed il crepu¬scolo sono quello che per noi sono il giorno e la notte, perché è più costante l'esposizione di quelle parti della super¬ficie del globo terrestre rispetto all'astro che simboleggia anche Apollo, il dio che scandisce il tempo, che da luce e tene¬bra. E secondo la tradizione si diceva che Leto, madre di Apollo e Artemide, a-vrebbe potuto partorire soltanto in un luogo che non fosse mai stato illuminato prima dal sole. La nascita doveva svol¬gersi nell'oscurità: in un'ora in cui sol¬tanto i lupi potevano vedere. In greco il crepuscolo antelucano era indicato con espressioni come: « lykophos » oppure « lykauges », « luce da lupi ». Si diceva che Apollo potesse tramutarsi in lupo per annientare i nemici o per unirsi in amore con la sua amante Cirene. Leto stessa pare fosse stata trasformata in lu¬pa da Zeus, prima di raggiungere Delo dal paese degli Iperborei.
Il dio della luce imminente che viene dalle tenebre. Del « recupero », non della perdita e dell'abbandono (Dioniso). Di Febo dice queste cose Pindaro: « È lui che a uomini e donne dispensa i rimedi delle gravi malattie; egli ha donato loro la cetra, e a chi vuole concede la Musa, inducendo nelle loro menti la pacifica disposizione nemica della guerra, e go¬verna il recesso fatidico » (Pitica V, 63 segg.). Questo ce lo presenta come la di¬vinità della durata delle cose nel recupe¬ro della loro condizione ottimale. Ma Fe¬bo da anche la morte e la pestilenza. Lui, che viene dalla notte e dalla follia, tende e spinge alla saggezza ed alla luce. Ed esortando l'uomo, lo sfida mortalmente (Edipo). Dionisio, invece, possiede per brevi attimi. È lo smarrimento e la morte dei momenti in cui ci s'immerge nel tutto. È la notte che viene dopo un giorno breve

e abbagliante. È il tramonto, l'altro crepu¬scolo.
La tradizione più antica e più diffusa sulla morte di Orfeo ci narra che il can-tore, dopo il suo ritorno dall'Ade, amareg¬giato per la perdita — doppia perdita — di Euridice, rinnegò il culto di Dioniso, il dio che aveva venerato sino allora, e si rivolse ad Apollo. Il dio offeso lo punì e lo fece sbranare dalle Menadi, come si è già visto. Si ripresenta così emblema¬ticamente la polarità tra Apollo e Dioni¬so: il dilaniamento di Orfeo allude a que¬sta duplicità inferiore, all'anima del poe¬ta, del sapiente, posseduta e straziata dai due dèi. E Dioniso prevale su Apoljo. Co¬me nel mito cretese, dove Dedalo, arti¬sta apollineo, costruisce il Labirinto per un Dioniso presentato come cruda malva¬gità, divinità bestiale, ed Apollo è do¬minato, anche qui la benignità musicale di Dioniso cede alla sua crudeltà di fon¬do. Lo svolgimento del mito riceve un suggello imperioso da Dioniso, e in en¬trambi i casi la fine è tragica (G. COLLI, op. cit., pagg. 23-36). Per la donna, Arian¬na congiunta a Dioniso come dea labirin¬tica, fuggita poi con Teseo, dopo aver rinnegato la divinità animale fornendo al¬l'eroe la continuità, dandosi essa stessa alla continuità, per far trionfare l'indivi¬duo permanente, per redimere l'uomo dalla cecità del dio-animale, lei, figlia di Pasifae e sorella di Fedra, dunque espres¬sione della violenza elementare dell'istin¬to animale, la fine sarà tragica. Abbando¬nata da Teseo, sarà uccisa da Artemis, ma sarà restituita a Dioniso immortale e senza vecchiaia, dissella l'Illusione uma¬na. Per il cantore parimenti sarà tragica la fine. Per lui che voleva perpetuare l'eb¬brezza dell'amore per Euridice, trasfor¬mare il momento dionisiaco nella eter¬nità apollinea. Per lui, ministro di Dioni¬so, che voleva abbandonare, nel fallimen¬to dell'impresa, l'ebbrezza per il sogno. O con Dionisio, la momentaneità, o sen¬za vita, e nemmeno Apollo lo protesse. Per lui, ch'era votato al dio dell'ebbrezza, non era possibile l'abbandono, il tradi¬mento.
Ma veramente « vince » Dioniso? Non ha trasformato in cosa eterna l'amore di Or¬feo e di Arianna? Non ha fissato per sem¬pre il momento irripetibile dell'ebbrezza oltre ogni prima, ogni poi, oltre adesso? Pare, quindi, che la vittoria coincida, per Dioniso, con la vittoria di Apollo, e che la sua vita sia possibile solo in una « morte »


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incessante. Dionisio, dunque, è l'im-mortale che diventa « tempo » ed ha una fine, un prima e un dopo, con un inizio indistinto perché « ebbro »? Ed Apollo, dunque, sarebbe il « tempo » che si eter-na? L'attimo che sfugge alla determina-zione in una morte definitiva che è vita per sempre, nella Memoria, nella Poesia in quanto capaci di dare immortalità a cose mortali?
Dioniso, forse, l'incarnarsi della divini¬tà, l'idea che diviene oggetto fugace e de¬stinato a breve vita, ed Apollo il ricordo perenne di cose che nella fine e nella morte hanno vinto il tempo, sono oltre il dopo. E tutto questo, dentro l'uomo. Non fuori. Dentro. Vita che muore e morte che vive.
Infelici sono quasi tutti gli amori di Febo Apollo, che è chiarezza ed oscurità, e se il sole può simboleggiarlo, di più lo rappresenta la luce che abbaglia e diven¬ta tenebra. Dafne si trasformò in alloro. E fu sua solo nel ricordo, trasformata in poesia. Dioniso amò sempre Arianna, ma con alterne vicende, ed il suo fu un amo¬re tinto spesso di forza crudele e vendi¬cativa, finché lei non divenne definitiva¬mente come lui: un eterno momento.
Nella tragedia come rappresentazione d'una rappresentazione, si riflette quin¬di il dramma sempre presente dell'acqui¬sizione di una dolorosa, ma ineluttabile consapevolezza.

… È’ incredibile ch'io ti cerchi in questo o in un altro luogo della terra dove è molto se possiamo riconoscerci. Ma è ancora un'età la mia, che s'aspetta dagli altri quello che è in noi oppure non esiste.

L'amore aiuta a vivere, a durare, l'amore annulla e da principio.
E quando chi soffre o langue spera
— se anche spera —
che un soccorso s'annunci di lontano, è in lui, un soffio basta a suscitarlo.

Questo ho imparato e dimenticato
[mille volte,
ora da te mi torna fatto chiaro, ora prende vivezza e verità.
La mia pena è durare oltre quest'attimo.
(Mario Luzi, Aprile-Amore)

… e ancora:
E alberi, alberi, alberi
dalla testa dorata:
io me ne resto qui,
impigliata a metà del viale
col mio abito fluorescente

ed il mio corpo invisibile.
E tu,
tu solamente ti ostini
a dire che esisto.
(M. ZOLI - Letargo di Kaster Kar).
Così i poeti, meravigliosamente, rendo¬no in poche parole quello che cerco di dire in queste pagine.
Esistono altre funzioni p^icologiche dei miti che vengono totalmente escluse dal¬la teoria unilaterale di Klukhohn, di cui prima si trattava, per esempio quelle di Cari Gustav Jung, a cui si è accennato precedentemente in vari punti.
C.G. Jung faceva parte del circolo freu¬diano, ma finì con l'allontanarsene. Per alcuni aspetti le sue idee mostrano una discendenza freudiana, per altri egli cor¬resse radicalmente i presupposti del mae¬stro. Come questo, comprese che i sogni non meno dei miti possono rivelare certe configurazioni dell'inconscio, ma invece di vestigia di desideri e preoccupazioni dell'«infanzia del genere umano », egli li considerava rivelazioni di ciò che chia¬mava 1' « inconscio collettivo », che è l'im-plicazione ereditaria e permanente del-l'umanità in certi simboli-chiave. L'impor¬tanza degli «archetipi» (nella filosofia di Piatone l'archetipo era il modello ori¬ginario e ideale delle cose sensibili. Il Kirk considera « equivoco » questo termi¬ne junghiano che si riferisce ai simboli universali ovvero alla disposizione a pro-durli) per lo psicologo militante è che il loro particolare impiego da parte dell'in-dividuo, ad esempio nei sogni, è indice di un dramma psichico inconscio che produ¬ce la salute o la malattia della mente. I miti rivelano dal canto loro tendenze psi-chiche normative della società — tenden¬ze che comprendono la preoccupazione relativa a contraddizioni e problemi sia sociali sia personali. Nulla nei miti è « in¬fantile », al contrario essi rivelano gli im¬pulsi e le fobie inconsce delle società mo¬derne non meno di quelle antiche, e la loro espressione allevia anche le compli¬cazioni del vivere d'oggi. Una delle più profonde intuizioni di Jung, secondo il Kirk, è che gli uomini sono soggetti a queste antiche, tradizionali forme d'espres¬sione, al rituale e alla religione come ai miti, oggi non meno che in passato. Il re¬legarli nella sfera delle curiosità storiche non ha fatto che aumentare la nevrosi dell'uomo contemporaneo.
Con quest'idea generale che i miti sono un elemento fondamentale dell'equilibrio psichico, e tanto più di quello sociale, del gruppo, non si può che essere d'accordo.


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« Purtroppo — sostiene il Kirk •— molte delle sue intuizioni più specifiche sono meno accettabili. La più dubbia di tutte è l'idea stessa degli « archetipi »: la madre-terra, il bambino divino, il vecchio sapiente, il sole, Dio, l'io, l'animo e l'ani¬ma (l'idea femminile dell'uomo e l'idea che l'uomo ha della donna), addirittura certe forme come la mandala e la croce, come pure il numero quattro.
Jung asserisce che queste immagini ricorrono ripetutamente nei miti, nei so-gni e nelle altre manifestazioni della co-scienza popolare. Ma le cose stanno dav¬vero così? C'è qui quel tanto di verità spe¬cifica che basta ad essere significativa? Gli allievi di Jung si sono limitati ad ac¬cettare le sue ripetute affermazioni in questo senso e a rifarsi ai casi desunti da alcuni miti, dalla storia dell'arte e dal mi¬sticismo medioevale, che sono quelli che più colpiscono lo stesso Jung e che sono usati frequentemente nei suoi copiosi scritti. Occorrerebbe evidentemente una statistica dei motivi mitici (delle figure ricorrenti più che degli eventi tipici), ma i suoi seguaci ancora viventi sembrano considerarla superflua e spiritualmente ripugnante.
In un mio precedente volume ho sug-gerito che il vecchio sapiente, la madre terra, il bimbo divino e simili non sono in realtà figure che ricorrono specifica-mente nei miti greci. Il « vecchio del ma¬re », Porci o Nereo, è una tipica figura profetica, e la saggezza della vecchiaia è incarnata in Nestore, che visse per tre ge¬nerazioni umane e il cui consiglio viene continuamente richiesto da Agamennone, secondo l'Iliade di Omero. Demetra sim¬boleggia indubbiamente la fecondità della terra, e la perdita di sua figlia Persefone è uno dei più antichi e toccanti miti greci. Si potrebbe pensare che il bimbo divino sia rappresentato nei racconti dell'infan¬zia di Dioniso, di Hermes o addirittura di Eracle. Ma questi temi non sono uni-versali e nemmeno particolarmente co-muni nei miti greci, né si può certo dire che i concetti che rappresentano preval-gano su numerosi altri. Ma in ogni caso, i simboli collettivi di Jung che cos'altro sono se non idee fondamentali dell'uma-nità necessariamente presupposte dalla fisiologia dell'uomo e dalle circostanze so¬ciali? Un padre infallibile è un fattore dello sviluppo psichico della maggior par¬te di noi che abbiamo conosciuto i nostri padri; il sole, è superfluo dirlo, è impor-

tante; l'idea di Dio sorge in una od altra forma in ogni società umana; la « ma¬dre terra » è una concezione molto comu¬ne, e i Greci erano ossessionati dalla Cibele asiatica e dai prototipi di Artemide non meno che da Demetra.
Naturalmente, alcune di queste idee co¬muni si rivelano nei miti; sarebbe stra¬no se così non fosse. Ma ciò che cosa si¬gnifica se non il fatto che i miti si riferi¬scono talora a idee e generalizzazioni uni¬versalmente umane? Dobbiamo postula¬re per spiegarli un « inconscio colletti¬vo » che va al di là degli interessi univer¬sali dell'umanità? Dobbiamo usare termi¬ni fuorvianti come « archetipi? » Dobbia¬mo credere, come credevano Jung e il suo seguace Kàroly Kerényi, che può esi-stere una vera e propria scienza della mi¬tologia, per cui a certi simboli è lecito ac¬cordare valori specifici, e assegnare al lo¬ro impiego un posto in una mappa della normalità psichica?
Più seducente è l'idea junghiana che certi concetti possano venire ereditati co¬sì come i modelli di compartamento bio¬logico. E' cosa che si potrà dimostrare o confutare; il suo pregio per lo studio dei miti sta nel fatto che potrebbe spiegare il ricorrere di temi mitici assai precisi in culture in apparenza indipendenti » (G.S. KIRK, op. cit. pagg. 76-78).
Per Ernst Cassirer, che intraprese l'e-norme fatica di comporre una filosofia della civiltà, il mito è visto come una delle principali « forme simboliche » d'espres¬sione, mentre le altre sono la lingua stes¬sa e la scienza (E. CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, trad. it. Firen¬ze 1974, specialmente il voi. II).
Secondo lui, un mito non può essere valutato intellettualmente, perché non è allegorico ma tautegorico. E' una forma d'espressione autonoma, in cui lo spirito contrappone al mondo di fatti dell'espe-rienza un suo proprio mondo d'immagini: l'impressione pura opposta a quella deri¬vata. In quanto siamo indotti da questo a trattare i miti come prodotti del senti¬mento più che della ragione, questo è un salutare correttivo delle teorie intellettua¬lizzanti del mito come « protoscienza ». Cosa significa questa teoria? Alla fine, che la « coscienza mitica », che entra in fun¬zione quando il mondo esterno « sopraffa un uomo in pura immediatezza », sicché l'« eccitazione soggettiva diviene obictti¬vata e si pone davanti alla mente in for¬ma di dio e di demone », è poco più del senso di venerazione religiosa.


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Per Cassirer il mito e la religione sono in rapporto di continuità, ma questa non deve farci dimenticare che molti miti so-no del tutto dissimili dalla religione, che almeno la loro genesi deve essere total-mente distinta da quella dei sentimenti relativi agli dèi e al culto. Cassirer re¬sta nel vago a proposito di ciò che viene precisamente «espresso » da quebiu con¬tatto emotivo col mondo esterno; a volte è un « dio o un demone », altre volte un simbolo. Ma un simbolo di che cosa? An¬cora una volta ci troviamo di fronte alla difficoltà che un simbolo, anche se non è allegorico, una voce di codice razionale, deve avere almeno un contenuto emoti¬vo. A volte sembra che per Cassirer que¬sto contenuto sia semplice, una specie di senso dalla presenza divina. Altre volte in¬vece egli parla di configurazioni mitiche fondamentali » che possiedono « unità di fatto » in virtù di una « sottostante for¬ma strutturale ». Questi simboli almeno sono complessi, più particolareggiati dei semplici sentimenti di numinosità e si¬mili, e in realtà le loro « configurazioni sentimentali » assomigliano agli « archeti¬pi » junghiani, esattamente come la loro struttura comune prefigura le idee di Lé-vi-Strauss. Certo Cassirer non era privo di simpatia per Jung, se non altro perché Jung ripudiava la concenti-azione freu-diana sulla motivazione sessuale, che a Cassirer pareva una degradazione della civilità umana. Ma, come Jung, egli non giunse a chiarire la natura e il funziona-mento dei simboli mitici. Si può sospet-tare che entrambi fossero parimenti con-dizionati dall'idea sostanziale freudiana delle correlazioni fisse fra dati simboli e certi tipi di sentimenti o di preoccupa¬zioni, e -saprattutto fra gli oggetti fallici o uteriformi e l'ossessione o la repressione sessuale.
Nel complesso Cassirer Ha poco da ag¬giungere al semplice concetto su cui so¬no basate le teorie metafisiche junghia-ne: il concetto che esistono certe fonda¬mentali preoccupazioni umane la cui e-spressione nei miti promuove l'integra¬zione dell'individuo nella sua situazione fisica e sociale. Questo concetto è impor¬tante anche per Lévi-Strauss, ma la sua teoria dei miti è più interessante, so¬prattutto perché offre analisi dettagliate del modo in cui i miti rispecchiano le tendenze interiori dell'uomo (LEVI-STRAUSS, Antropologia strutturale, trad. it. Milano, il Saggiatore, cap. 11). Questa teoria dipende dal postulato fondamen-

tale che l'esprit dell'uomo sia struttural-mente simile in ogni periodo ed in ogni genere di /società. Essa accetta anche gran parte della dottrina « funzionatisi i-ca » secondo cui la società è macchina, ogni parte della quale è coinvolta nel funzionamento del tutto. Per Lévi-Strauss l'unità strutturale della macchina socia¬le deriva dalla struttura coerente degli intelletti che ne determinano in ultima analisi le forme. I miti, come i rituali, fanno parte della macchina, e svolgono ruoli specifici nel farla funzionare; quin¬di anch'essi sono determinati, in ultima analisi, dalla struttura dell'intelletto. Lé¬vi-Strauss afferma che una delle princi¬pali caratteristiche di questa struttura è la tendenza a polarizzare l'esperienza, a dividerla ai fini della comprensione in se¬rie di opposti, grosso modo come fa un elaboratore binario. È vero che conoscia¬mo molte specie di società in cui il siste¬ma classificatoria i ha carattere binario. Le società semplici sono spesso organiz¬zate in metà, ossia in due gruppi ciascu¬no dei quali sceglie il coniuge nell'altro, anche se lo stesso Lévi-Strauss ha dimo¬strato che tali apparenti sistemi spesso sono in realtà più complessi. Anche in al¬tre società è dato scoprire sovente la di¬sposizione a effettuare divisioni binarie (e non ternarie e così via) tra gli oggetti dell'esperienza; i greci (dimostravano particolarmente questa tendenza. Vi so¬no, naturalmente, dei fattori obiettivi che incoraggiano questo modo di considerare le cose. L'esistenza di due sessi impone la dicotomia di alcuni aspetti più importan¬ti della vita sociale, quelli che riguardano l'accoppiamento e la « continuazione del¬la tribù ».
Inoltre il contrasto tra soggetto e og-getto, tra sé stessi ed il mondo esterno, rafforza la tendenza a veder le cose in termini contrapposti: desiderabile e inde-siderabile, tuo e mio, bianco e nero, ami¬co e nemico, amore e odio. L'individuali¬tà umana al pari della psicologia ci inco¬raggia a dividere il nostro mondo in cop¬pie, e questa tendenza è innegabilmente riflessa in alcuni aspetti dell'organizza¬zione sociale. Ma, secondo il Kirk, sareb¬be certo più vicino al vero affermare che gli inevitabili aspetti binar! dell'organiz-zazione umana e sociale si impongono al¬l'intelletto, piuttosto che ammettere che una struttura puramente mentale deter-mini ogni prodotto del comportamento umano. La nostra conoscenza del cervello fino ad oggi non ci autorizza a pensare che debba funzionare come un elaborato¬re binario,



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… eppure lo strutturalismo im¬plica inequivocabilmente questo tipo di funzionamento.
Per passare ai miti, osserviamo che la lo-ro qualità quasi-binaria per Lévi-Strauss è la loro funzione (come la vede lui) di 'mediare le contraddizioni'. Ossia, nella vita gli uomini si trovano davanti a ogni sorta di problemi, di cui alcuni' generali che non dipendono dalle circostanze indi¬viduali; ad esempio, come conciliare i proprì interessi ed ambizioni con quelli del gruppo, come sopportare il pensiero della morte quando tutti i nostri istinti sono per la vita, come temperare l'avi-dità e la lussuria naturale con la discre-zione. La maggior parte di questi proble-mi generali si presenta in forma di con-traddizione: tra il desiderio e la realtà, tra il raggiungibile e l'irraggiungibile, tra l'individuo e la società. Allora la funzio¬ne dei miti è quella di rendere queste contraddizioni sopportabili, non tanto dando corpo a fantasie di appagamento o liberando inibizioni, quanto istituendo modelli pseudo-logici che fungono da ri¬medi, o meglio, palliativi delle contrad¬dizioni stesse.
Uno degli esempi più chiari di ciò che ha in mente Lévi-Strauss è la sua analisi del mito della creazione degli indiani Pueblo, dove la caccia è inserita come mezzo di sussistenza tra l'agricoltura da una parte e la guerra dall'altra. In un'al¬tra parte dello stesso ciclo di miti la ca-tegorizzazione antitetica degli animali in pascolatori e predatori viene corretta dall'osservazione che gli animali che si ci¬bano di carogne intervengono fra i due altri tipi, giacché mangiano carne morta ma non uccidono per procurarsela. La contraddizione mediata da questo mito è esattamente quella tra la vita e la mor¬te, e il risultato è ottenuto mettendo in rilievo che, in sfere specifiche di produ¬zione del cibo e nel comportamento istin¬tivo degli animali, non esiste una sempli¬ce contrapposizione tra vivo e morto, bensì anche frasi intermedie tra i due. Ciò fa sorgere un dubbio, ma non più che un dubbio, circa il carattere definitivo della morte. I miti non si propongono di fornire prove filosofiche, ma piuttosto di modificare la nostra risposta emotiva a un aspetto della nostra esperienza. Il principale complesso di testimonianze di Lévi-Strauss comprende i miti di tribù in-

diane affini del Brasile e del Paraguay, ed è particolarmente prezioso perché questi miti sono stati raccolti per secoli da missionarì di notevole livello. Le varianti mi-tiche da loro registrate hanno consentito a Lévi-Strauss di dimostrare che ciò che in un mito tende a mutare col passare del tempo sono gli eventi specifici, personali e individuali. Ciò che rimane costante è il rapporto tra un personaggio o un fat¬to e un altro, in breve, l'intera struttura del racconto. Poco importa se superficial¬mente un mito riguarda una ragazza che disubbidisce alla madre o una nonna che avvelena il nipote — la struttura rimane immutata e viene riferita a un conflitto tra generazioni, in ultima analisi alla sua soluzione mitica.
Questa teoria, nella forma estrema in cui il suo autore la presenta, offre qual-che difficoltà. Quando afferma che il vero contenuto dei miti è una specie di alge¬bra, una astratta affinità strutturale fra l'intelletto e l'ambiente circostante, che trascende gli specifici problemi e preoc¬cupazioni sociali, egli spinge indubbia¬mente troppo oltre l'intuizione struttura-listica. Ma l'idea che i miti siano soprat¬tutto intesi a mediare le contraddizioni, dimostrando che « le categorie empiri-che (...) possono servire da strumenti con¬cettuali per liberare idee astratte » è una idea feconda. Si da il caso che non si ap¬plichi altrettanto felicemente (e ad altri miti occidentali) quanto a quelli degli in¬diani Bororo e dei loro vicini, ma ciò è dovuto probabilmente a due ragioni: i primi sono stati distorti dalla tradizione letteraria, e in ogni caso le loro sottoli-neature culturali, in assenza di un ragio-nevole numero di varianti, restano oc-culte.
Tuttavia gli strutturalisti trovano re-pulsivo ogni annacquamento della teoria e respingono l'idea che una struttura mi-tica possa venire modificata nel corso del¬la trasmissione perché secondo loro l'in¬telletto umano, che afferma la propria struttura sempre nello stesso modo, do¬vrebbe garantire la continuità; e giacché tutti i miti sono un prodotto dell'intellet¬to e della società, dovrebbero essere tutti in pari misura suscettibili di analisi strutturale. Su questo punto G.S. KIRK (op. cit. pag. 84) non è d'accordo e sotto¬linea l'influsso che su ogni tradizione nar¬rativa esercitano l'accidentalità, la debo¬lezza umana, il mutare dello sfondo so¬ciale e l'arbitraria scelta personale. L'intera concezione di Lévi-Strauss, come tante altre teorie antropologiche, ha toc¬cato l'assurdo nel suo rigore.


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La società non è una macchina, pur avendo i suoi aspetti meccanici; l'intelletto umano non sono tutti analoghi per struttura e fina¬lità, nemmeno al livello più astratto.
Queste intuizioni, questo riconoscimen¬to della non totale rigidità delle opera¬zioni mentali e degli ordinamenti sociali, ci consentono di avvalerci della possibi¬lità che un mito proponga una specie di mediazione, insieme con le altre possibi¬lità già considerate, che possa fungere da patente, proporre una spiegazione, avere un valore prevalentemente drammatico e così via. È comunque evidente che al¬cuni miti si occupano di problemi, so¬prattutto delle maggiori cause di ansia come la natura della morte. Il pregio di un'interpretazione strutturale modificata è che ci offre la particolare intuizione che il fattore importante può consistere nei rapporti profondi più che negli argo¬menti superficiali (anche quando vengo¬no interpretati simbolicamente), insieme con l'idea che i problemi tendono ad as-sumere la forma di contraddizioni, e che le contraddizioni possono venir sanate rivelando un « tertium quid », talora per-fino fittizio.
Una delle antinomie fondamentali sco¬perte da Lévi-Strauss nella vita e nei miti dei suoi indiani nordamericani è quella tra natura e civiltà, spesso simboleggiata nei loro miti dalla differenza tra il crudo e il cotto. Anche i miti greci sembrano preoccuparsi della contraddizione tra legge naturale e legge umana, tra la forza e il ritegno, la barbarie e la civiltà. E l'o¬pera di Lévi-Strauss può aiutarci a com-prendere l'importanza fondamentale di questa contrapposizione generale. L'anti-tesi di natura e civiltà formulata dai so-fisti greci sotto l'intestazione di 'physis' e 'nomos', natura e legge (o convenzione), e rimessa in circolazione da Rosseau pri-ma che da Lévi-Strauss, era personificala concretamente dai centauri.
I loro torsi umani e posteriori equini simboleggiano la loro ambivalenza ed evi¬denziano una possibile associazione tra elemento cerebrale e umano, animale e sessuale (G.S. KIRK, op. cit. pag. 216). Quanto al più famoso degli eroi del mito
greco, Eracle, g.U aspetti che più ci colpi-
scono delle sue imprese mitiche sono i seguenti: l'uccisione e la cattura di mo-stri e malfattori; ie peregrinazioni in tut-

te le parti del mondo; gli intervalli di fol-lia e di schiavitù, gli aspetti bestiali da una parte, quelli civilizzati dall'altra, i suoi scontri con la morte e con l'aldilà.
Si può credere che nell'eroe il motivo della servitù sia connesso a quello della follia. Ed il suo tipo di follia sembra una estensione della furia e della forza bruta. L'attacco a Lino lo è certamente, più che un fatto di pura insania. L'alternativa è che la follia non discenda dal suo carat-tere complessivo, ma che gli sia comple-tamente estranea. Nel caso del suo attac¬co contro i proprì figli la pazzia, in fin dei conti, è inviata da Era, sua nemica, e potrebbe semplicemente considerarsi una forma più radicale di Infatuazione che, secondo l'Iliade, viene così spesso mandata fra gli uomini dagli dèi. Ma la demarcazione tra l'ispirazione marziale che i Greci chiamavano 'ménos' (possan¬za) e la follia omicida non molto netta, e la pazzia di Eracle potrebbe essere il risultato occasionale ed estremo di una forza, di una vitalità soprannaturale che erano sempre potenzialmente pericolose. Lo stesso tratto è esemplificato da Achil¬le. Eracle però non va trattato come una persona reale, il cui carattere è un amal¬gama di tendenze psicologicamente com¬patibili. Egli è naturalmente una creazio¬ne in gran parte fittizia, e certi suoi ele¬menti, come l'inclinazione a fondare cul¬ti e giochi, riflettono sicuramente le esi¬genze istituzionali di comunità molto sparse più che le sfumature plausibili di una psiche individuale. Ma l'arbitrarietà non può essere assoluta, e deve esistere un nucleo specifico e significativo cui le qualità più casuali possono aderire. Que¬sto nucleo esiste forse in una generale antitesi fra Natura e Civiltà. Le azioni ci¬vili dell'eroe (« civilità » del suo carattere) comprendono la fondazione dei giochi o-limpici e il suo presiedere i rituali d'ini-ziazione. Le sue azioni bestiali, selvagge o barbariche (« natura » del suo caratte-re) implicano il libero operare del « mon¬do naturale » in contrasto con la legge e la convenzione degli uomini. Gli anima¬li vivono secondo natura, ed Eracle ha numerosi « aspetti animaleschi » anche nel tratto fisico: villosità, l'uso di coprir¬si d'una pelle e d'una testa di Icone; la clava rozza e poderosa tagliata diretta¬mente dall'albero.
Aveva l'aspetto forte e selvaggio d'un Icone rampante. Ancora un'altra compo-nente del comportamento « naturale » di Eracle è la sua mancanza di freni in fatto di amore, cibo e vino: le normali inibizio¬ni sociali non sono per lui.


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La sua forza prodigiosa lo contrassegna come sovru¬mano, una Icona più che un uomo, e gli eccessi di rabbia e di follia sono bestiali più che umani (G.S. KIRK, op. cit. pagg. 214-215). Esistono anche altri sintomi che la visione « polarizzata » delle cose è en¬demica nel pensiero greco fin dai primor-di. Le strutture artificiali come i. centauri (metà cavalli e metà uomini) e ,iiCiclopi (giganti con un occhiò solo) sono svilup¬pate in modo tale da sembrar sottolinea¬re inconsciamente le virtù e i vizi conca-tenati della natura e della civiltà. ^
I centauri sono vigorosi e spesso sel-vaggi, come quando si ubriacano e si dan¬no ad eccessi alle nozze di Ippodamia, la principessa dei Lapiti, loro confinanti nel¬le terre limitrofe al monte Pelio. Essi cer¬cano di violentare Ippodamia e le altre fanciulle, e per questa ragione vengono scacciati dal re Piritoo e inseguiti da Era¬cle in persona. Ma il capo dei centauri è Chirone, che si astiene da queste imprese e vive una vita supremamente civile ed esemplare, paradigma della civiltà, nella sua paradossale caverna montana.
Questo tipo di dualismo è meno evi-dente nei Ciclopi. Se ricordiamo soltanto Poliremo nell'Odissea, evochiamo un qua¬dro di terrificante bestialità e cannibali¬smo, ma la verità è che i Cicloplnel loro insieme sono parenti degli dèi, vivono piuttosto pacificamente, e Poliferno è una sorta di estraneo tra di loro. Gli altri Ci¬clopi erano anzi considerati gli autori delle mura colossali di Tirinto e di Mice-ne e delle folgori con le quali Zeus sta-bilì la sua supremazia e il regno della legge.
E ancora: nella loro concezione delle tre grandi masse cosmiche, il fuoco, la terra e il mare (o l'acqua), i Greci riuni-vano filoni contraddittorì che i miti con-tribuiscono a saldare insieme. Il fuoco è sacro e profano, benefico e distruttore. Viene in forma di fulmine dall'àìther (ciclo), il ciclo lucente o strato più puro dell'aria superiore, sede naturale degli dèi; esso purifica ogni male, lo brucia co¬me pula; è il dono degli dèi agli uomini, il mezzo con cui gli uomini non solo cuo¬ciono il cibo ma anche bruciano le vitti¬me sacrificali mantenendo il legame con il divino e il celeste, È lo strumento es¬senziale dell'arte ceramica e metallurgi¬ca, le arti protette da Atena e Efesto. Ma

nel suo aspetto opposto è lo strumento della punizione divina e della fiammante distruzione: la saetta e il lampo di Zeus. Anche l'acqua è sia datrice di vita, sia as¬sociata alla morte in forma di disastrose inondazioni, come quella cui sopravvisse¬ro soltanto Deucalione e Pirra. La terra è la più chiara di tutti, perché è il luogo dove nasce il grano, la partner della piog-pia fecondatrice che cade dal ciclo, il ri¬cettacolo dei morti, il luogo dove le ani¬me spente dei defunti discendono nel re¬gno di Ade.
Anche sotto altri aspetti i Greci tende-vano a sottolineare le contraddizioni in-site nel cuore delle cose.
Le donne sono viste come gloriose e maligne, l'amore come demoniaco e divi¬no, la vecchiaia come causa sia di saggez¬za sia di demenza. Talvolta i miti fanno pensare a una mediazione (Prometeo nel caso del fuoco, Persefone in quello della terra), ma spesso non è così, e in genera¬le è importante ammettere che molti ele¬menti della visione greca del mondo con¬tenuti, ad esempio, nell'elenco delle stes¬se funzioni divine, non sono di natura antitetica. La teoria di Lévi-Strauss è chiaramente fondata su una concezione particolare dell'espiri?, che presumibil-mente comprende la psiche. La media-zione implica una tendenza polarizzante che in un certo senso è di origine menta-le, ma questo tipo di valutazione struttu-rale sembra rientrare più nell'interpreta-zione intellettuale dei miti che in quella psicologica.
Il guadagno totale sul fronte psicolo-gico sembrerebbe piuttosto esiguo, con-siderata soprattutto la sicurezza con cui gli psicologi hanno avanzato le loro tesi e il rispetto con cui sono state ascoltate. Naturalmente i miti sono anche un pro-dotto dell'inconscio, ma Rank, Abraham e Jung, non meno di Cassirer, vi hanno dedicato una speciale attenzione. Esisto-no poi degli aspetti specifici degli studi psicologici che illuminano certi temi mi-tici, indipendentemente dalle teorie uni-versali. Le indagini moderne hanno dì-mostrato che i sogni sul volo sono straor¬dinariamente diffusi; la loro implicazio¬ne è discutìbile, ma contribuiscono a spiegare il fascino particolare di miti co¬me quelli di Icaro che vola verso il sole o quello di Bellerofonte su Pegaso. Vale a dire che il loro tema principale coincide con un tema onirico comune non meno che misterioso. Più incerto si dichiara il
Kirk …


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… circa l'interpretazione freudiana dei miti che comportano il galleggiare sul-l'acqua come un riferimento inconscio all'embrione circondato dai suoi liquidi, e l'associazione dei miti del paradiso a ricordi inconsci della felicità dell'infanzia pare certamente arbitrario, giacché sono possibili molte altre spiegazioni. Tanto più che è ancora da dimostrare che l'in¬fanzia sia « felice ».
In generale si può affermare che non è stata rivelata ancora alcuna ragione per-ché i miti siano psicologicamente soddi-sfacenti in quanto tali, perché costitui-scono una forma unica di espressione )a differenza di altre forme di narrazione) che sollecita un tipo particolare di rispo-sta fantastica.
« La loro natura tradizionale chiarisce i loro temi particolari e la loro fantasia più di qualsiasi rapporto determinabile con la psiche umana, ed è nei loro speci-fici soggetti più che nella loro eziologia come modo espressivo che essi rivendica¬no un non casuale interesse psicologico » (G.S. KIRK, op. cit. pag. 87).
C'è una data qualità fantastica, alme¬no in molti miti, che provoca una rispo¬sta di tipo particolare, un'empatia a li¬vello quasi viscerale, affine all'impatto della grande musica e della grande poe-sia. Tali sentimenti non sono limitati ad alcuni temi particolarmente suggestivi (anche se qui appunto recano il loro con¬tributo alcune specifiche teorie psicolo¬giche). Forse la qualità che li produce an¬drebbe associata non già a un modo speciale di espressione mitica, bensì ai temi generali dei miti, o perfino alle par¬ticolari circostanze in cui vengono narra¬ti. La prima possibilità ci riporta alla teo¬ria di Mircea Eliade, secondo cui i miti ricostruiscono l'aura di un'epoca di crea¬zione passata, un'epoca dai poteri miste¬riosi. Questa teoria è valida solo, però, per alcuni miti. Uno sguardo ai miti gre¬ci non offre molto sostegno all'intuizione di Eliade.
Quelli cosmogonici, come la successio¬ne di Urano, Crono e Zeus, possiedono una certa brutalità fantastica, ma non si può ancora parlare di una creatività che può essere messa a partito dagli uomini. Le attività di Prometeo in favore dell'u¬manità sono più rilevanti, ma il loro è un effetto intellettuale più che emotivo. La nascita dei vari dèi e le funzioni che essi acquisiscono, non diversamente dalle ge¬sta degli Eroi (anche quando comporta-

no viaggi sopra e sotto la terra) hanno un tono troppo pragmatico per accordarsi con la teoria. Malgrado l'organizzazione razionalizzatrice cui sono stati sottopo¬sti, i miti greci nel complesso posseggono ancora un certo vigore fantastico, che però non è della specie postulata da Elia¬de. I miti mesopotamid ci colpiscono per molti aspetti più dì quelli greci ma anche essi mancano di un'acuta nostalgia rivol-ta ad eventi paradigmatici « in ilio tem-pore ».
Un suggerimento diverso è dovuto al-l'antropologo V.W. Turner, secondo il quale i miti sono « liminoli », ossia vengo¬no narrati in situazioni di « soglia » o di transizione (International Encyclopedia of thè Social Sciences, voi. X, 1968, pagg. 576 segg. - s.v. Myth and Symbol).
L'idea è un estensione della famosa i-dentificazione operata da A. van Gennep di. un tipo di rituale noto come 'rites de passage', la cui funzione è di effettuare il .passaggio da una fase vitale o sociale ad un'altra: all'atto della nascita, della pu-bertà ed iniziazione, del matrimonio, del-la vecchiaia e della morte. Tali rituali tendono ad essere celebrati in ore e luo-ghi insoliti (di notte, nella boscaglia o nel deserto, nudi o in abiti strani) in modo da sottrarre i partecipanti alle normali condizioni spaziali o temporali. Essi frap¬pongono un intervallo sacro al flusso del¬l'esperienza profana, per facilitare la ra¬pida transizione da una condizione ad un'altra totalmente diversa. Secondo Tur¬ner, anche i miti « vengono spesso narrati in momenti e luoghi che sono 'a mezza strada' ». Ma questo è vero solo per una sparuta minoranza di miti. È evidente¬mente falso per i miti greci in tutte le fasi che si possono ricostruire, ed anche nelle società tribali i miti vengono narrati spessissimo in circostanze quotidiane e prosaiche. Certi tipi di miti sono recitati cerimonialmente, è vero, ma non siamo affatto autorizzati a considerarli tipici del genere, trascurando totalmente gli altri, Ed è altrettanto falso che i miti cerimo-niali (che tendono alla qualità di patenti) siano più fantasiosi degli altri. Se, come suggerisce Turner, i miti forniscono una sorta di « prospettiva totale », spesso la cosa sarà dovuta a ragioni diverse.
A questo punto Turner sembra ripiega¬re su una posizione vicina a quella di fi¬llade; i miti « sono avvertiti come miste¬ri sublimi e profondi che mettono l'ini¬ziando in temporaneo rapporto col primordiale potere generativo del cosmo » -

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************* …

(G.S. KIRK, op. cit. pag. 89).







… Tuttavia, il particolare vigore fantasti-co di molti miti dipende in parte dal fatto che essi offrono effettivamente qualcosa di simile alla « prospettiva totale » di Turner, o almeno una prospettiva più am¬pia di quella della vita quotidiana. Si è già ricordato il lato fantastico dei miti. Parte di esso dipende non già da motivi narrativi che ci colpiscono, bensì dall'uso di elementi soprannaturali, che siano i mostri, gli dèi o la magia. L'effetto non è di natura religiosa, come implicano co¬loro che sottolineano il « sacro » come la qualità mitica essenziale. Piuttosto, es¬so indica la coesistenza nell'esperienza umana dell'ordinario e dello straordina-rio, del sacro e del profano. Questa è una modalità della fantasia mitica. Un'altra, affine ma distinta, dipende dalla disloca¬zione delle sequenze e delle attese norma¬li; un qualcosa che trasporta al di là del paradossale in una specie di oltremon-daneità che ha carattere di sogno e talora di incubo.
Freud sottolineò lo « spostamento » dell'esperienza della veglia come una fun¬zione delF« attività onirica ». Se i miti as¬somigliano ai sogni per la loro disloca¬zione degli eventi, come in effetti sem¬bra, ciò presumibilmente non è dovuto all'esatto genere di ragione psicologica (proiezione del sonno, repressione di de¬sideri antisociali) presa in considerazio¬ne da Freud. Piuttosto si può avanzare l'ipotesi che la dislocazione della vita quotidiana sia di per sé vitalizzante e li¬beratoria. Secondo quest'ipotesi non è la « liminalità » dei miti che conferisce loro una « prospettiva totale »; è piuttosto la loro capacità di rivelare nuove possibili¬tà di esperienza per altro verso mai im-maginate. Una teoria, dunque, del mito come d'una vita in potenza, alternativa e parallela a quella in atto, quella propo¬sta dal Kirk (op. cit. pag. 90). « Questo concetto — afferma il Kirk — non riu-scirà del tutto estraneo a una società che gode dell'arte surrealista e che ha biso-gno di un « teatro dell'assurdo », e sem-bra plausibile che la forza d'attrazione inconscia della fantasia di dislocazione possa non essere inferiore, anche se di qualità differente, nelle condizioni strati-ficate e culturalmente circoscritte di una società che non possiede la scrittura ed è fondata sulla tradizione ». E — vorrei aggiungere io — non riuscirà del tutto

estraneo specie in una società dove l'ab-norme, il surreale e l'assurdo assumono sempre di più l'aspetto del consueto e del normale, e ciò che è « normale » l'aspetto dell'assurdo e dell'abnorme. Ma, anche accettando il punto che anche l'irraziona¬le, l'assurdo, il surreale è « reale », o al¬meno è « una » realtà altrove collocata e comunque riscontrabile, il mito non può essere posto sullo stesso piano. In quan¬to, cosa che non avviene per le altre due dimensioni, può essere oggetto di culto e di venerazione. L'assurdo e l'abnorme possono essere, eventualmente, ottimi alibi. Dei « salvagente ». Il che, anche se non è « la stessa cosa », può comunque sortire un esito uguale: placare l'ansia, frenare l'angoscia, presumere soluzioni alternative e potenzialmente verificabili: verosimili, e quindi « poetiche », non imi¬tative di tutta la realtà, ma evocatrici di una realtà probabile, date certe premesse. I miti greci non presentano forti dislo¬cazioni, e la fantasia che periodicamente mettono in mostra dipende più dalle lo¬ro componenti soprannaturali. Lo stesso vale per i miti nordici e in genere per la maggior parte di quelli che in una data fase sono stati sottoposti a trasmissione letteraria o quasi letteraria. I miti meso-potamici conservano inaspettatamente alcune qualità di dislocazione apparente, malgrado una lunga tradizione di scrit-tura. Ne sono esempì Gilgamesh che la-scia cadere oggetti preziosi nel mondo sotterraneo attraverso un foro, la corsa fatale di Enkindu per recuperarli, o la dea della terra Ninhursag che crea le ot¬to malattie di Enki collocandolo nella propria vagina.
La giustapposizione meccanica di temi e la determinazione degli eventi median-te l'etimologia sono fattori speciali, che sfociano in sequenze imprevedibili. Anche così sussiste un residuo fantastico, seb¬bene non ci colpisca come la fantasia di cui sono permeati i miti delle società tri¬bali degli indiani d'America o degli au¬straliani. Secondo un mito dei Pitjandjo-ra (Australia Centrale), due sorelle Ra¬gno portavano del cibo a un novizio del¬la circoncisione nella boscaglia. Una ten¬tò di farlo copulare con lei e lo distese in una fossa, ma egli si rifiutò. Alla fine essa lo portò in ciclo. Qui troviamo un altro motivo di apparente paradossalità, giacché molti particolari del racconto so-no connessi con pratiche rituali — la fos¬sa e l'astinenza sessuale in particolare.



************* …
parte espulse altre forme di fantasia, spe¬cialmente le crudezze rituali e gli altri distorcimenti dell'esperienza quotidiana. Ciò ebbe senza dubbio i suoi effetti bene¬fici. Forse contribuì perfino allo sviluppo di una visione razionale del mondo.
E i miti greci, d'altra parte, non furono sempre così blandi e privi di vero impre-visto.
Non possono essere stati sempre privi di quel rozzo vigore e di quell'estatica di-slocazione della vita quotidiana che è probabilmente un elemento essenziale nella formazione di una civiltà veramen-

Esiste quindi un livello allegorico che complica la fantasia, ma l'importante è che esso non la abolisce né rende il mi¬to meno misterioso in rapporto all'ordi¬naria esperienza profana.
te creativa.

Gli studiosi classici hanno in comples-so assai ammirato nei miti greci la relati-va assenza di « tratti orripilanti » (come li chiama H.J. Rose) e di vistose illogicità, un segno della chiarezza di pensiero per la quale i Greci del periodo classico van¬no famosi. È vero che già all'epoca di O-mero e di Esiodo i miti avevano ricevuto una forma organizzata in cui al sopran¬naturale era stato assegnato un posto preciso, e dalla quale erano state in gran

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« Seligit e silvis Arabum lucisque Sabaeis quo Phoenix ramos ad sua busta paret ».


(« Dalle selve degli arabi e dai boschi sabei la fenice sceglie i rami per procurarsi il rogo »)

Giovanni Gioviano Fontano, Eridanus, XI, De Phoenice ave et de amante, La Lettera¬tura Italiana, Storia e Testi, voi. 15, Poeti latini del Quattrocento, R. Ricciardi Ed., MI¬NA. 1964.



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domenica 31 agosto 2008

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Grammatica Contestuale


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di Gennaro di Jacovo


CENNI SULLA LINGUISTICA
di Gennarino Di lacovo
Gennaro di Jacovo
Genni
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Al Professore Arnaldo Corrieri ed ai miei alunni del Ginnasio.

« Perché dunque incolparmi adesso, dell'avervi messo a parte delle mie ansietà, se mi ci spingesti e scongiurasti Tu stessa? Forseché, nel disperato e mortale- sbaraglio in cui mi dibatto, sarebbe in tono, che voi intanto ve la godeste? O vorreste forse, adesso, esser soltanto campagne di gioie, e non anche, più, di dolore? rallegrarvi con gli allegri, sì, ma piangere coi piangenti, no? Tra i veri e i falsi amici non c'è maggior divario che dell'as-sociartisi i falsi, nella fortuna, ma, i veri, nella sventura ».

(Abelardo ed Eloisa, Lettera V -
Alla Sposa di Cristo il suo servo -
A.F. Formiggini Editore, Roma 1927,
pagg. 113 segg.).

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Nuova Grammatica Contestuale

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Secondo Ferdinand de Sausurre « la materia della linguistica è costituita anzi¬tutto dalla totalità delle manifestazioni del linguaggio umano, si tratti di popoli selvaggi o di nazioni civili, di epoche arcaiche o classiche o di decadenza, tenendo conto per ciascun periodo non solo del linguaggio corretto e della "buona lingua", ma delle espressioni d'ogni forma. Non è tutto: poiché il linguaggio sfugge piuttosto spesso all'osservazione, il linguista dovrà tenere conto dei testi scritti, i quali soli potranno fargli conoscere gli idiomi del passato o quelli -lontani.

Il compito della linguistica sarà a) fare la descrizione e la storia di tutte le lingue che potrà raggiungere, ciò che comporta fare la storia delle famiglie di lingue e ricostruire, nella misura del possibile, le lingue madri di ciascuna famiglia; b) cer¬care le forze che in modo permanente e universale sono in gioco in tutte le lingue, ed estrarre le leggi generali cui possono ricqrjdursi tutti i particolari fenomeni della storia; e) delimitare e definire se stessa » (F. De Sausurre, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1979, pag. 15).
Osserva il Mounin {Guida alla linguistica, U.E. 626, Feltrinelli ed., Milano 1975, pagg. 19 segg.) che la « linguistica », intesa come lo studio scientifico del linguaggio umano, è « un insieme di conoscenze molto antico » e, nello stesso tempo, « una scienza assai recente », perché ha in realtà una lunga tradizio¬ne scientiflco-culturale alle spalle, anche se solo recentemente è stata clamorosa¬mente portata all'attenzione d'un vasto pubblico, grazie a recenti studi sociologici e psicologici sui sistemi linguistico espressivi.
Prima gli Indiani, poi i Greci ed .infine gli Arabi hanno posto le basi per un'ana¬lisi fonetica di notevole valore, anche se troppo trascurata per duemila anni.
Certamente, possiamo prendere come motivazione di base della nascita del linguaggio l'esigenza di comunicare impressioni ed informazioni nata dall'incontro di esseri dotati di sensibilità e, se vogliamo, d'intelligenza. Molto tardi si è svilup¬pata la scrittura. Per giungere a questa si è dovuto genialmente intuire che è pos¬sibile connettere ad altro segno-simbolo grafico-fisico un suono, ed infine un si¬gnificato convenzionale. Si è giunti per gradi a quei segni che ora chiamiamo « let¬tere », e che hanno la funzione di materializzare visibilmente dei suoni (fonemi).
I primi linguisti senza dubbio sono stati « gli uomini che hanno inventato e perfezionato la scrittura » (Meillet, in Mounin, op. cit.). Durante il Medio Evo, ac¬canto ad uno studio convenzionale e grammaticale, spiccano alcune intuizioni ori¬ginali e quasi anticipatrici di teorie ancora oggi attuali, come quelle di Dante, che esamineremo più oltre.
La riforma dell'ortografia, operata in tutta Europa e resa operante con l'inven¬zione della stampa, stimolerà lo studio della fonetica fino al secolo XVIII. Del XIV secolo sono le prime grammatiche delle lingue volgari. Guido Cavalcanti scrisse « una grammatica e un'arte del dire » sul volgare fiorentino (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Voi. I, pag. 56, Einaudi, 1958). Dal XVI secolo inizia lo stu¬dio delle lingue amerinde e nascono i primi dizionarì poliglotti. Si tentano le prime classificazioni linguistiche (Scaligero). Nel XVII e XVIII secolo la ricerca si esten¬de in ogni direzione: la fonetica progredisce con gli studi anatomici ed appas¬siona gli inventori delle stenografie e delle lingue artificiali, e gli educatori dei sordomuti.



Tuttavia resta insolubile il grosso problema dell'origine del linguaggio, malgrado le ipotesi proposte, tutte non sufficientemente attendibili o non verificabili, come quella dell'ebraico lingua madre. La scoperta del sanscrito, tra il 1786 e il 1816, segna una grande svolta in questo campo, Si dimostra, con una evidenza indiscu¬tibile, la parentela tra il latino, il greco, il sanscrito, le lingue .germaniche, slave e celtiche. Nasce, con i tentativi operati da Franz Bopp per ricostruire l'indoeuro¬peo nei suoi tratti esesnziali, la grammatica comparata. Si prende spunto, para¬gonando fra loro i diversi linguaggi, dai metodi e dai principi delle scienze natu¬rali. Le lingue vengono assimilate ad organismi viventi: allo studio del linguaggio viene applicato, per quasi mezzo secolo, il metodo biologico.
Secondo i grammatici « naturalisti », come lo Schleicher, che era anche bota¬nico-naturalista, le lingue nascono, crescono e muoiono come qualsiasi organismo vivente. E la loro vecchiaia inizia dal momento in cui si codificano nella scrittura.
Dagli studi linguistici comparativi, si sviluppa la linguistica storica, che nasce dall'esigenza di paragonare fra loro fenomeni linguistici verificatisi attraverso stadi progressivi d'una stessa lingua. Così la grammatica comparata da origine al¬lo studio della incessante evoluzione delle lingue. Questa trasformazione è rea¬lizzata tra il 1876 ed il 1886 dalla scuola dei neogrammatici, a cui si deve la si¬stemazione rigorosa del fonetismo arioeuropeo.
La fonetica detiene in questa fase una importanza predominante: riesce a spie¬gare la quasi totalità dei mutamenti linguistici.
Ci si rivolge anche alla nuova scienza: la psicologia, per spiegare la dinamica di alcuni fenomeni generali.
La lingua, studiata storicamente, non è più considerata un'entità suscettibile d'un'analisi biologica, ma piuttosto un'istituzione umana. La linguistica diviene, perciò, una scienza storica, e non appartiene più alla sfera delle scienze naturali.
Una nuova impostazione al problema linguistico sarà data da Sausurre (1857-1913), che interpreterà il linguaggio come una istituzione sociale. Come già si è accennato, compito fondamentale della linguistica è, per il Sausurre, quello di descrivere il maggior numero possibile di lingue storico-naturali e famiglie di lin¬gue sia nella loro funzionalità in un dato momento, sia nel loro divenire attraverso il tempo (studio sincronico o diacronico - « langue » o « parole »), sia da un punto di vista interno, sia da uno psicosociologico, culturale, storico e, in generale, « esterno ».


§

La teoria del linguista svizzero, in pratica, rovesciò le impostazioni tradizionali della linguistica. Egli stabilisce che la prima tappa d'una scienza del linguaggio dev'essere lo studio del suo funzionamento, « hic et nunc », e non quello della sua evoluzione. La linguistica storica deve esser messa al secondo posto, da un punto di vista metodologico, rispetto ad una più importante linguistica descrittiva. È que¬sta la nota opposizione tra linguistica sincronica e linguistica diacronica.
Lo sforzo di comprendere il funzionamento puro del linguaggio come istituzio¬ne sociale, qui e adesso, conduce il Sausurre a mettere l'accento sulla nozione di sistema. Questo, per lui, è quasi sinonimo di codice. Così « segno », per lui, non è più sinonimo di parola, termine troppo generico, e la nozione di « catena par¬lata » diviene prioritaria rispetto a quella di « frase ». Il termine che Sausurre usa in questo campo è quello di « unità ». Egli vuole individuare le unità reali che compongono la catena parlata. Gli strumenti che propone per studiare le unità di codice che costituiscono i messaggi, sono analisi strutturali. Per questo, con lui, ha inizio il cosiddetto « strutturalismo ». '
La lingua, per il fondatore della moderna linguistica strutturale, « è il patri¬monio collettivo delle forme foniche "significanti", univocamente combinate con i relativi "significati". Questo'patrimonio di segni è organizzato in "sistema", in quanto ciascuno di essi deve la sua esistenza al fatto di entrare in certi rap¬porti con gli altri.
La "funzionalità" del sistema — ciò che lo rende uno strumento atto a funzio¬nare nei singoli atti di "parola" — è costituita appunto dalle opposizioni e corre¬lazioni intercorrenti tra i singoli elementi, i quali risultano individuati dai loro rap¬porti differenziali nei confronti degli elementi similari, piuttosto che dalle loro caratteristiche positive » (R. D'Avino, Introduzione a un corso di Storia Comparata

delle lingue classiche, Kappa Ed., Roma 1967, pagg. 13 segg.). Quindi, per com¬prendere veramente un termine, non si può isolarlo dal sistema di cui fa parte
In tal modo il linguista svizzero anticipa i risultati e le scoperte dovute agli studi di antropologia culturale, che vedono la lingua non come legata ad una struttura oggettiva di cose, ma come creatrice di tali strutture, in funzione dei bi¬sogni della società che la pone e la mantiene in essere.
La lingua ha infatti la capacità di discriminare l'esperienza in significati e di organizzare le fonìe o le loro rappresentazioni grafiche in significanti.
Sausurre distingue, all'interno del fenomeno linguistico, un aspetto « oggettivo » costante, la « langue », ed un aspetto « soggettivo », individuabile, espressivo, la « parole ».
La « parole » è l'uso che ciascun parlante fa del patrimonio linguistico espres¬sivo comune (« langue »).
L'opposizione fra « langue » e « parole » si può interpretare come quella fra sistema astratto e sue singole manifestazioni materiali. Quella fra paradigmatica e sintagmatica si può interpretare in termini di codice e messaggio; ad essa molti fanno corrispóndere una distinzione terminologica fra struttura (sintagmatica) e sistema (paradigmatica). (G.C. Lepschy, La linguistica strutturale, P.B. Einaudi, Torino 1966, pag. 31).
I principali agenti del mutamento linguistico vengono individuati nei fenomeni dell'alternanza, dell'analogia e dell'agglutinazione.
Dopo Sausurre, Io strutturalismo ha assunto varie tendenze:
Strutturalismo ontologico (Chomsky): concepisce, antistoricamente e naturali¬
sticamente, le strutture sociolinguistichre come prodotto delle doti biologiche
contenute nell'uomo, nella sua natura, e quindi le ritiene « innate ».
Strutturalismo. storicizzante: riconosce nelle strutture un prodotto storicamente e tem¬

poralmente circoscritto dell'agire umano. Lo strutturalismo praghese (Jakob-
son e Trubeckoj) è stato ontologico e storicizzante.
Strutturalismo metodologico: concepisce le strutture solo come sistemi utili alla pre¬
sentazione ed alla catalogaziene dei fenomeni.

Strutturalismo. epistemologico: nel riconoscimento del carattere strutturato d'un campo

d'esperienza vede una necessità non derogabile della conoscenza umana.

Lo strutturalismo americano è stato soprattutto uno strutturalismo metodolo¬gico. Bloomfield, Harris, Hockett ed Hall ne sono i maggiori esponenti.
Poiché la lingua è un organismo in evoluzione, ci si offre la possibilità di un suo studio diacronico che ne colga l'evolversi temporale.

Sausurre privilegia però, come si è già detto, un secondo tipo di analisi del fenomeno linguistico, basato sullo studio della lingua in un determinato momento storico, così da descriverne il meccanismo ed i rapporti esistenti fra gli elementi che ne costituiscono il sistema. Così, pur ponendo in evidenza l'arbitrarietà del linguaggio, afferma che tale caratteristica è limitata e disciplinata daìla organicità del sistema.

Tutto il sistema della lingua poggia sul principio irrazionale dell'arbitrarietà del segno, per cui il significato viene unito al significante non per una precisa legge naturale, ma in base a criteri « arbitrari » scelti dal parlante.
Questo principio, applicato senza restrizione, porterebbe alla massima con¬fusione.

Lo spirito riesce ad introdurre un principio d'ordine e di regolarità in certe parti della massa dei segni, ed è in ciò il ruolo del relativamente motivato. (F. De Sausurre, Corso di Linguistica Generale, Laterza, Bari 1972, pag. 159).
Solo una parte dei segni è assolutamente arbitraria. Presso altri interviene, in¬vece, una serie di rapporti che ne limitano l'arbitrarietà, lasciando il posto ad una motivazione, che resta, comunque, pur sempre parziale.


Questi rapporti che determinano il significato arbitrario dei segni sono detti paradigmatici (o « associativi »), in quanto definiscono o precisano il significato all'interno di una medesima serie (insegnare, insegnamentp, indottrinamento etc.). Sono rapporti in absentia.

Altri rapporti, però, contribuiscono a definire il significato di un segno, e sono i rapporti sintagmatici. Vale a dire quelli che intercorrono fra una parola e quelle che seguono o precedono nella frase.

Il valore della parola dipende, perciò, anche da quello delle parole che la cir¬condano nella catena parlata. Si tratta, quindi, di rapporti in praesentia.
Lo studio sistematico di ogni unità minima, di tutte le sue possibili associa¬zioni oppositive (paradigmatiche) o dei vari rapporti sintagmatici, coincide con una considerazione « sincronica » della lingua.
Questo si traduce in una « linguistica statica » che descrive un particolare stato della lingua. Questa per Sausurre è la « grammatica ».

Tale concetto supera la grammatica normativa tradizionale, basata su rigorose classificazioni delle parole (le « parti » del discorso). Si arriva ad una visione glo¬bale, sistematica e funzionale del fatto linguistico. La « morfologia » si fonde con la « sintassi » e con lo studio lessicologico. Anziché partire dagli elementi lingui¬stici, si parte dal sistema, avendo come fine la scoperta di come funzioni e si realizzi nei singoli atti del parlante. Dopo le feconde e geniali intuizioni di Sau¬surre, — scrive G.C. Lepschy (La linguistica strutturale, Einaudi 1966, pagg. 37-39) — le tendenze strutturalistiche si possono caratterizzare sommariamente co¬me segue, in base alle loro linee direttive teoriche.

La Scuola di Praga, e più recentemente A. Martinet, per il loro insistere sui valori funzionali della struttura linguistica e dei veri elementi di cui la struttu¬ra si compone.

La Scuola di Copenaghen, e in particolare la glossematica di L. Hjemslev, per il suo insistere sul carattere astratto del sistema linguistico, in base al quale van¬no interpretate le singole manifestazioni materiali.
La linguistica americana, in particolare postbloomfieldiana per il suo carattere tassonomico, per il suo basarsi cioè su processi di segmentazione (del continuum, dell'enunciato in elementi minori di cui esso è composto) e di classificazione di tali elementi in base alle loro proprietà distribuzionali (in base cioè alle possibilità che tali elementi hanno di combinarsi fra loro, formando unità di ordine superiore sempre più complesse).

Le teorie generative, in particolare di Chomsky, elaborate a partire dalle diffi¬coltà contro cui si scontrava l'analisi linguistica tassonomica, introducono nel modello linguistico da esse elaborato, delle regole che consentono di generare (tutte e solo) le proposizioni ammesse in una certa lingua; si introducono in parti¬colare delle regole di trasformazione che consentono di generare intere categorie di proposizioni a partire da altre categorie di proposizioni basilari (la cui struttura viene stabilita attraverso procedimenti tassonomici).

La grammatica generativa trasformazionale è composta da un blocco o com¬ponente centrale sintattico (un calcolo, come si direbbe con termini della logica moderna); da un lato questo è soggetto a un'interpretazione semantica (il compo¬nente semantico è quello che attualmente richiede maggior elaborazione); dall'al¬tro, le « stringhe » finali che esso produce vengono, attraverso le regole del com¬ponente fonologico, materializzate nella catena parlata, nei messaggi fonetici che noi percepiamo. Una posizione centrale hanno le teorie di Jakobson e più recente¬mente di Halle, secondo cui nel componente fonologico ci si serve di un inventario di dodici «tratti distintivi binari » che costituiscono veri universali linguistici, co¬muni a qualunque lingua.


Noam Avram Chomsky porta i dati e le intuizioni di Sausurre a livelli decisa¬mente rivoluzionari. La linguistica, con lui, abbandona ogni finalità semplicemente classificatoria (linguistica tassonomica) per interessarsi soprattutto di ricostruire modelli ipotetici espliciti delle lingue, destinati a chiarire i dati linguistici osser¬vabili. Con lui ci si avvia verso una vera concezione teorica della linguistica, già abbozzata dagli strutturalisti.


Il linguista americano, che ricerca le forme della realtà profonda del linguaggio, reinterpreta la distinzione sausurriana di « langue » e « parole » nei termini di « competenza » (la conoscenza implicita, e non conscia, che il parlante ha della propria lingua) e di « esecuzione » (le frasi che il parlante produce realmente, nelle quali si manifesta la sua competenza), e si propone di definire la compe¬tenza linguistica, cioè, come egli scrive. « // sistema astratto di regole che sotto¬sta al comportamento verbale di ciascun parlante ». Chi parla una lingua può pro¬durre, e comprendere, un numero pressoché illimitato di frasi, la maggior parte delle quali non sono mai apparse prima, e, molto verosimilmente, non riappari¬ranno più.

Ogni parlante « reinventa » la lingua. Di questo aspetto creativo del linguaggio umano, fondamentale per Chomsky, non darebbe certo ragione una indagine che si rivolgesse all'esecuzione — cioè a un corpo di.testi necessariamente finito —, per estrarne, induttivamente, il sistema di regole che lo governano.

Del resto, come ricorda l'esperienza della scienza contemporanea, la raccolta, l'osservazione e la classificazione dei dati non ci garantiscono alcuna generalizza¬zione scientificamente valida, che possa cioè prevedere i nuovi fatti, oltre a fornire una descrizione plausibile di quelli già noti. La formulazione di una teoria scientifica comporta sempre un rischio. Essa viene costruita servendosi di un numero limi¬tato di esperienze, e quindi verificata nei fatti, che hanno la funzione di farla respin¬gere o accettare (« i dati dell'osservazione sono interessanti nella misura in cui hanno una incidenza sulla scelta fra due teorie rivali », scrive Chomsky). A questi principi s'attiene il linguista, allorché cerca di specificare le regole che governano la competenza lingusitica, elaborando alcuni modelli ipotetici (grammatiche), e confrontandoli quindi con i fatti linguistici reali, che decideranno quale sia il più adeguato.

A differenza degli strutturalisti europei, Chomsky non parte dalle unità minime della lingua, ma dalla frase. Il compito di uria grammatica risiede nella capacità di enumerare tutte le frasi incontestabilmente grammaticali della lingua data, esclu¬dendo, per converso, quelle pure incontestabilmente non grammaticali (V. Boarini -P. Benfiglieli, Avanguardia e restaurazione, Zanichelli, Bologna 1976, pagg. 666 segg.).


In questo modo il fatto centrale nello studio del fenomeno linguistico è la in¬nata capacità che ha ogni parlante di produrre e di comprendere un numero gran¬dissimo di frasi, anche se non le ha mai prima d'allora ascoltate né pronunciate. Questa capacità produttiva e decodificatoria nell'ambito linguistico, la chiama dunque « competenza (linguìstica) » (= conoscenza implicita che ogni parlante ha della propria lingua). Tale sistema mentale di regole e norme linguisticamente ope¬ranti è codificato nella « grammatica ».
Chomsky tende a ridurre i modelli linguistici ad un insieme di regole meccanica¬mente applicabili sotto la forma di un algoritmo (procedimento sistematico che consente di pervenire al risultato desiderato con una bene determinata succes¬sione di operazioni eseguite secondo regole precise).

Abbandonando la pretesa di emettere giudizi inconfutabili sulle reali regole usate dal parlante nella produzione linguistica, la grammatica generativa cerca in sostanza di adeguarsi, cercando di definirne i meccanismi, alla realtà sottostante il comportamento effettivo dei parlanti. Così diventa una branca della psicologia.

Si cerca pertanto di ricostruire ipoteticamente e scientificamente la struttura di un meccanismo che ogni bambino ha riprodotto appropriandosi di un linguaggio in un determinato ambiente.
Questo meccanismo deve essere molto sistematico e ben coordinato, operante secondo schemi omogenei, se è vero che bambini di 2-3 anni sono già in grado di appropriarsene. Insomma, una grammatica è un meccanismo capace, pur essen¬do finito, di generare un insieme infinito di frasi grammaticali.
Il modello linguistico di base di cui Chomsky si serve per visualizzare i rapporti esistenti fra i costituenti (parole) della frase, è il « phrase marker » (indicatore della frase). Questo è anche definito « indicatore sintagmatico », in quanto scom¬pone la-frase in gruppi sintagmatici,- ossia in gruppi di parole che hanno un con¬tenuto unitario, e all'interno di ogni sintagma specifica le categorie (nome, articolo

§

Fs (Frase semplice)


GN (Gruppo nominale )
(articolo)

I1 uomo colpisce la palla

( Gruppo equivale a Sintagma.

Il 1° GN è il 'soggetto'.
Il 2° è il 'complemento oggetto ).

etc.) e le funzioni (soggetto, predicato etc.).
Il costituente più elevato è la frase. Una prima divisione comporta una prima distinzione fra due sintagmi. Il sintagma o gruppo nominale (GN] « l'uomo », forma¬to da articolo (o determinante) e nome, ed il sintagma o gruppo verbale « colpisce la palla ». Quest'ultimo può essere diviso ancora in altri costituenti: il verbo, « col¬pisce », ed il secondo gruppo (o « sintagma ») nominale (GN) « la palla ».

I due GN possono essere scomposti neMoro costituenti ultimi (parole, « mor¬femi » o, per Martinet, monemi, ossia unità linguistiche minime dotate di signi¬ficato):
l'uomo = GN (o SN) = Art (o Determ.) + N (sogg. = GN 1) la palla = GN - Art + N (compi, ogg. = GN 2)

La « formula » della frase semplice è, quindi, la seguente: Fs = GN + GV.
Mediante l'applicazione d'una serie di « regole di riscrittura » si giunge ai costi¬tuenti terminali:

GN + GV Art + N + GV Art + N + Verbo + GN + N + Verbo + GN + uomo + Verbo + GN + uomo + colpisce + Art + N + uomo + colpisce + la + N + uomo + colpisce + la + palla
(E. Cavallini Bernacchi, l'insegnamento della lingua, II Punto-emme edizioni, Mi¬lano 1975, pag. 84 e N. Chomsky, Le strutture della sintassi, U. Laterza, Bari 1974, pag. 36).

(Nota: le « regole di riscrittura » hanno la forma generale X—>Y, da interpre¬tarsi come « si riscriva X come Y ». Per es. F—» SN + SV (Frase = Sintagma (o Gruppo) Nominale + Sintagma Verbale).

Questo sistema permette — cosa che si nota facilmente — di visualizzare an¬che le differenze di struttura che possono generare ambiguità in frasi apparente¬mente simili.

Esaminiamo la frase seguente: una vecchia porta la sbarra.
una vecchia porta la sbarra


GN
GV


una vecchia porta

la sbarra


GN

§

una vecchia porta

la

sbarra

144
L'ambiguità è generata dal modo in cui si intende il monema « porta »: Nome
oppure Verbo. :

Nel primo caso la stringa categoriale sarà A + N + V + A + N.

Nel secondo sarà: A + Agg. + N + Pron. + V.

Ma esistono frasi che restano ambigue anche dopo un'analisi sintagmatica strut¬turale di questo tipo. Per esempio, la frase « il maestro spaventa il bambino » è ambigua, perché può essere assunta sia nel senso che il maestro compie qualche azione che spaventa il bambino, sia nel senso che il bambino si spaventa alla sem¬plice vista del maestro.

Nei due casi è diversa la relazione tra « il maestro » e « spaventa ». La gramma¬tica sintagmatica non è in grado di distinguere strutturalmente le due interpreta-zioni. Ad entrambe, infatti, corrisponde lo stesso albero etichettato:


GN


il maestro

spaventa

il bambino


La grammatica sintagmatica non sa render conto delle relazioni intuitive fra una frase attiva e la corrispondente negativa, interrogativa o passiva.

§


IL TRASFORMAZIONALISMO — Per questo motivo Chomsky introduce le regole « trasformazionali ». La sua grammatica è detta perciò « generativo-trasformaziona-le ». In questa grammatica, ad una prima analisi « sintagmatica », che visualizza le strutture profonde delle frasi, segue una seconda analisi che chiarifica le regole di trasformazione, determinando la struttura superficiale delle frasi, che coincide con la forma finale degli enunciati. Per esempio, alla struttura profonda « io ordino a te tu vieni » operano le trasformazioni che la mutano in: « ti ordino di venire ». La grammatica sintagmatica analizza solo la frase-base:
Fc (Frase complessa)

Fx ( Secondaria o Subordinata )
io ordino a
te tu vieni 0 0

Costruito il primo indicatore sintagmatico, si può procedere all'applicazione di ogni possibile trasformazione (interrogativa, esclamativa ed imperativa; negativa, passiva ed enfatica). La frase-base è « dichiarativa ».
Le posizioni della grammatica generativo trasformazionale, come osserva la Bernacchi, sono, implicamente, un'accusa continua ai fini ed ai metodi delle gram¬matiche tradizionali. Mentre quest'ultime (ch£ si identificano in genere con quelle scolastiche) si preoccupano di fornire al parlante un insieme di regole che rendano corretto ed ortodosso il suo uso linguistico, le grammatiche generative assumono che le regolarità della lingua siano già implicitamente possedute dal parlante, alla cui competenza, anzi, fanno continuo ricorso per valutare il loro grado di ade¬guatezza.
Il fine di tali grammatiche, quindi, non è di fornire le regole della lingua, ma di scoprirle deducendole dagli usi linguistici concreti. Esse si propongono non di « in¬segnare la lingua », bensì di indagare sui processi mentali che regolano l'acquisizio¬ne e l'uso delle lingue, cioè di formulare un sistema di norme che permetta la for¬mazione di tutte le possibili frasi grammaticali ed escluda invece quelle non grammaticali.
Non hanno dunque intenti didattici, ma scientifici. Loro scopo, come si è accen¬nato, è la costruzione di una teoria del linguaggio.
Per questo, tali grammatiche rifiutano ogni atteggiamento di infallibilità e di incontestabilità, prerogativa delle grammatiche tradizionali. In questo senso, pur senza assumere fini didattici, le grammatiche generative contengono fondamentali fermenti didattici. Le « regole » grammaticali si rivelano inutili in un doppio senso: da un lato perché l'insegnante dovrebbe abituarsi a non spiegare ai propri alunni i fenomeni della lingua, ma a cercarne invece insieme a loro diverse possibili spie¬gazioni; dall'altro perché ciascuno impara a parlare correttamente da" sé, purché venga esposto all'emissione di enunciati corretti, e purché non gli sì crei la paura di sbagliare.
In questo senso uno dei fondamentali compiti dell'insegnante riguardo all'ap¬prendimento linguistico resta quello di riprodurre e di incrementare la situazione naturale di conversazione, di scambio verbale spontaneo attraverso cui ogni bambino, senza che gli vengano insegnate regole, impara a parlare.
Sì tratterà poi, in diversi gradi a seconda del livello scolastico o delle fasce di
livello all'interno di una classe medesima, di prendere spunto da questi atti di co¬
municazione per avviare riflessioni sistematiche sulle caratteristiche dell'uso lin¬
guistico, così da rendere ciascuno il più possibile consapevole delle caratteri¬
stiche, della natura e delle possibilità dello strumento linguistico (E.C. Bernacchi,
pagg. 90-91).


§


DANTE PRECURSORE DELLA MODERNA LINGUISTICA

— Intuizioni dantesche di chiarissima.attualità sono la considerazione del linguaggio come «forma» e del « segno » come « libero »; il riconoscimento del divenire delle .lingue e della sto¬ricità del fatto linguistico; il rilievo del fattore sociale nel processo evolutivo dei linguaggi; la nozione di « lingua » come comunione linguistica nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; la nozione di lingua comune come ten¬denza cosciente all'unificazione, che si attua attraverso il magistero dell'arte e il prestigio e l'azione del potere politico.
Sarà bene analizzare brevemente solo alcuni di questi punti, mirabilmente illu-strdu ud Antonino Pagliaro (A. Pagliaro, Nuovi Saggi di Critica Semantica, la dot¬trina linguistica dì Dante, Editore G. D'Anna, Messina-Firenze 1963, pagg. 215 segg.).

Il linguaggio è, per Dante, facoltà propria ed esclusiva dell'uomo di esprimere con parole gli intellectus o conceptiones della mente.
La parola è per lui il « segno fonico », come noi l'intendiamo, « rationale et sen¬suale » (De Vulgari Eloquentia, I, III, 2); ha, cioè, una realtà sensibile, in quanto il suono è oggetto di sensazione, ed una realtà spirituale, in quanto il complesso fonico ha un significato che ad esso inerisce non per necessità naturale, ma perche gli uomini ve lo attribuiscono: « nam sensuale quid est, in quantum sonus est; rationale vero, in quantum aliquid significare idetuz ad placitum » (De V.E. I, III, 3) (ed appunto questo segno è quel subietto nobile di cui parlo): infatti è alcun¬ché di sensibile, in quanto è suono; e di razionale, in quanto appar significare alcuna cosa a piacimento) (Dante Alighieri, Tutte le opere, a C.L. Blasucci, ed., Firenze 1965, pag. 205 b).

" Fu necessario, dunque, che il genere umano per comunicare fra sé le proprie idee disponesse di qualche segno sensibile e razionale; che esso, dovendo da ra¬gione ricevere ed a ragione portare, fu necessariamente razionale; e non potendosi d'altra parte riferire da una ragione all'altra se non per mezzo sensibile, fu neces¬sariamente sensibile. Pertanto, se fosse soltanto razionale, non potrebbe passare dall'uno all'altro; se fosse soltanto sensibile, non potrebbe da ragione ricevere ed a ragione portare » (De V.E. I, III, 2).

Sono da rilevare due punti essenziali in questa concezione. Prima di tutto il riconoscimento (cinque secoli prima di Sausurre) dell'arbitrarietà del segno lin¬guistico, e più precisamente della libertà della parola come complesso di segni va¬riamente organizzati. Tale arbitrarietà (« aliqujs significare ad placitum ») è lega¬ta da Dante con la libertà inerente allo spirito [ratio], mentre gli animali che ob¬bediscono all'istinto sono legati nel comunicare a certi atti o manifestazioni emo¬tive (« per proprios actus vel passiones » — per mezzo dei suoi propri atti o pas¬sioni — De V.E,, I, III, 1).
La facoltà di connettere suono e significato è data all'uomo da natura, ma l'at¬tuazione, la modalità di tale connessione è ad arbitrio degli uomini, cioè della li¬bertà che è inerente alla loro « ratio »:


« Opera naturale è ch'uom favella;
ma, così o così, natura lascia
poi fare a voi, secondo che v'abbella »
(Paradiso XXVI, 130-132).



A questa comune capacità fonico semantica, corrisponde nei fatti una grande varietà di lingue diverse.
Per spiegare la formazione di comunità linguistiche distinte, Dante ricorre alla tradizione biblica della confusione babelica, interpretandola in forma nuova e ori¬ginale.
Gli uomini che erano intenti aMa costruzione della torre, per la necessità del loro lavoro, crearono tante lingue speciali in conformità alle singole attività comuni.
« Solo quelli, infatti, che si accomunavano in una data operazione vennero ad avere una lingua medésima: una, per esempio, tutti gli architetti, una quanti rotolavano i sassi, una quanti li preparavano e così avvenne di tutti gli operai. E quente erano le forme di attività impegnate nella costruzione, in tanti idiomi allora si divide il genere umano » (De V.E. I, VII, 7). Dante individua nel bisogno di comu¬nicazione, inerente al comune lavoro, la creazione di singole lingue speciali.

47 Pur senza staccarsi dalla base culturale tradizionale, costituita dalla Bibbia, egli aggiunge una nota nuova al mito ebraico, anticipando la moderna teoria « si-nergastica »'(greco: siunergàzomai = lavoro insieme) dell'origine delle lingue.

Sulle lingue europee, Dante pone quello che chiama « idioma tripharium » come lingua che ha dato origine alle tre lingue romanze a lui note: francese, provenzale ed italiano. Non dice, però, esplicitamente cosa sarà stato questo linguaggio che è alla base delle tre lingue neolatine. Non lo identifica, comunque, con il latino della tradizione colta.

Lo sviluppo del suo argomentare porta necessariamente alla nozione di una lingua parlata, di cui il latino letterario, il latino dell'uso colto medioevale, sarebbe stato la forma grammaticale.
E nello stesso modo in cui ha intuito l'unità sostanziale dell'idioma tripharium, di cui la « lingua del sì », la « lingua d'oil » e la « lingua d'oc » sono manifestazioni diverse, Dante intuisce anche la fondamentale unità della « lingua del sì » alla base delle varietà dialettali. In tal modo, quindi, giunge alla determinazione della comu¬nione linguistica, che è alla base di un dominio dialettalmente differenziato, ossia della « lingua » nel senso « storico » della parola.

« In quanto agiamo come Italiani, abbiamo alcuni segni essenziali e di costumi e di atteggiamenti e di idioma, rispetto ai quali si soppesano e si misurano le azioni italiane. E appunto questi, che sono i segni più perfetti di quelle che sono le azioni proprie degli italiani, non sono specifici di nessuna città d'Italia e in tutte sono comuni; fra essi ora si può discernere quel volgare di cui sopra andavamo in cerca, del quale ogni città vi è sentore e che in nessuna ha sede » (De V.E. I, XVI, 3-4). È da rilevare che Dante pone la lingua sullo stesso piano dei costumi e degli istituti, in cui si determina la fisionomia storica di una comunità.
Noi oggi sappiamo, e Dante lo aveva"!ntuito, che l'affermarsi di una lingua co¬mune su un dominio dialettalmente differenziato è dovuto a circostanze varie, poli¬tiche e culturali, che danno la prevalenza alla parlata di una regione, di una città o addirittura di un ceto. Così è avvenuto per la Koinè greca, affermatasi per il pre¬stigio politico e culturale di Atene; così è avvenuto per l'italiano, per il francese, per il tedesco.

Ma Dante non ci trovava, come ci troviamo noi, ora, di fronte al fatto compiuto, e con le sue intuizioni anticipava l'avvenire, riuscendo a prevedere lo sviluppo probabile di certe potenzialità linguistiche.
Se l'italianità linguistica ha la sua essenza in alcuni caratteri fondamentali. •• primissima signa », il volgare illustre, cioè la lingua comune, non può aversi se non attraverso lo scoprimento di questi caratteri e l'adeguamento ad essi di ogni atteggiamento del parlante, escludendo il difforme ed il deviato dall'uso corretto della lingua.

Appare chiaro come Dante veda nell'unificazione linguistica un'opera di crea¬zione nazionale e popolare collettiva, ed un'opera di ricerca cosciente e paziente da parte di una minoranza di intellettuali che. avvalendosi dell'Arte, di un gusto gentile e raffinato e dell'appoggio d'un opportuno ambiente politico, dia uniformità ed ampiezza all'uso linguistico, mantenendolo, tuttavia, fedele ai suoi fondamentali contrassegni genetici.

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Concludendo, gli elementi nuovi apportati dal trattato dantesco nei confronti della speculazione linguistica antica e anticipatori delle moderne dottrine lingui¬stiche si possono così riassumere: considerazioni del linguaggio come « forma » (ossia costituzione del vocabolo nel suo rapporto necessario fra suono e significato e modo di organizzare i vocaboli nella frase: delimitazione di Piano Paradigmatico e Piano Sintagmatico) e del « segno » come « libero » (arbitrarietà del linguaggio, per Sausurre); riconoscimento del divenire delle lingue e della storicità del fatto -linguistico; rilievo del fattore sociale e politico; nozione di « lingua » come « co¬munione linguistica » nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; nozione di lingua come tendenza cosciente all'unificazione, che si attua attraverso il magistero dell'Arte e il prestigio e l'azione del potere politico.
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